Quando si analizza un personaggio della letteratura o del cinema, fittizio e declinato in molte varianti, la parte coinvolgente è osservare come le diverse interpretazioni della stessa figura possano dare sfumature sottili e interessanti. Così possono agire gli scrittori, e così possono fare anche registi e attori.
E poi c’è il personaggio che non ha bisogno dell’iniziativa di altri per avere le sue sfumature e le sue interpretazioni, perché avere volti diversi fa parte integrante del suo essere. Parliamo di una serie tv. “Doctor Who”.
Il fenomeno
Produzione storica della BBC, una delle più caratteristiche della televisione britannica, “Doctor Who” ha da qualche anno contagiato la popolazione delle serie tv su scala mondiale grazie a uomini sapienti nella stanza dei bottoni.
Nel 2005, Russel T. Davis riportò alla luce quello che sembrava ormai un ricordo di un ventennio glorioso durante il quale la fantascienza made in UK si era fatta valere. Ma non si è fermato a dargli nuova linfa vitale e un nuovo carattere: lo ha reso un gioiello della televisione al punto da farlo conoscere al di là della Manica, fino a creare un impero, un fandom dei più solidi e fedeli.
La sua eredità è stata raccolta da Steven Moffat, noto sceneggiatore, che ha dato la propria impronta al progetto e che, con un’ambizione più alta del suo predecessore, ha affrontato il cinquantesimo anniversario della nascita della serie (il 23 novembre 2013) con tale energia da riuscire a coinvolgere le reti televisive di decine di paesi, che hanno trasmesso l’episodio celebrativo in contemporanea.
Il Dottore è a tutti gli effetti un’icona dell’immaginario europeo e, con qualche fatica, anche mondiale, la cui statura sta ormai raggiungendo quella di altri personaggi ben più antichi o con un budget più pingue, e la cui complessità gli assicura un interesse che si rinnova di pari passo con le partenze e gli arrivi di chi prende le redini del suo destino.
Doctor Who?
La longevità di “Doctor Who” è assicurata da quanto anticipato: parte integrante del personaggio del Dottore è il suo cambiar volto. Se il suo corpo ha il tempo di rendersi conto che la morte è vicina e di reagire, infatti, si rigenera, sostituendo le fattezze precedenti con un aspetto tutto nuovo. E non è solo l’aspetto a cambiare, naturalmente: non ci sarebbe altrimenti libertà per sceneggiatori, registi e soprattutto attori.
Quasi si potrebbe dire che non ci sono caratteristiche fisse nelle tredici interpretazioni date del Dottore. È, sì, sempre un Signore del Tempo geniale che viaggia nel suo TARDIS, ma il rispetto che ha o meno delle linee temporali, la sua spregiudicatezza, il grado di follia o di responsabilità, il cinismo, lo spirito di sacrificio, la sensazione di essere irrimediabilmente vecchio… tutto ciò si mescola in diverse combinazioni e gradazioni, al punto da garantire un potenziale di variabilità pressoché infinito.
Non basterebbe un articolo a descrivere una sola delle incarnazioni, o almeno una delle ultime (fra le vecchie ce ne sono poche così complesse come quelle dell’ultimo decennio). Se infatti si può dire che il Nono Dottore, Christopher Eccleston, fosse una personalità difficile da gestire ma semplice nelle sue linee essenziali, già il Decimo, David Tennant, si fa più tormentato dal senso di colpa e dal timore della solitudine e dell’abbandono. L’Undicesimo, Matt Smith, entrato a far parte della famiglia Doctor Who insieme a Steven Moffat, è un bambino dagli occhi di centenario, corroso dal desiderio di poter fare di più e al tempo stesso stanco.
Peter Capaldi, Dottore attuale, è ancora in pieno corso di interpretazione da parte degli spettatori, ancora da dischiudere completamente, e ammantato di una severità finora inedita che ben si addice al “ritorno all’età adulta” del personaggio, conseguenza naturale degli avvenimenti degli ultimi tre episodi dell’epoca Smith.
La magia del Dottore
È difficile, ma proviamo a capire perché il Dottore è un tale trascinator di popoli.
Innanzitutto consideriamo il fatto che sia una personalità unica, centro e motore portante di un universo creato dietro le quinte apposta per fargli da scenario, e che al tempo stesso si configura come infinito e regolato da leggi interne nella maggior parte dei casi non scritte di cui lui solo conosce a mena dito il funzionamento, e non per averle studiate, ma solo grazie alla propria esperienza.
Il Dottore fa da tramite, allo stesso modo in cui poteva farlo Harry Potter con milioni di ragazzini alle soglie del 2000 portandoli a Hogwarts, o come potevano farlo Ian Solo e Chewbecca negli anni ’70 in giro per lo spazio. I companion del Dottore fanno da rappresentanza degli spettatori, e ognuno di loro è, per questo, di solito, un essere umano medio (sebbene genericamente femmina), dotato giusto di quel quid in più per sopportare una convivenza con il Dottore e tutto ciò che essa comporta.
Non bisogna sottovalutare poi la complessità sempre differente delle diverse incarnazioni: si rimane sorpresi dalla mole di parole che viene impiegata in discussioni e svisceramenti portati avanti a voce o per iscritto; e poi i confronti, e le ipotesi, e le nostalgie…
L’essere in vita da moltissimo tempo permette a “Doctor Who” di avere un intreccio malleabile, di poter tornare indietro e di contorcersi. Soprattutto, e questo è il grande vantaggio rispetto a moltissime serie, non ci si è mai preoccupati della coerenza. C’è sempre qualcosa che non torna, c’è sempre una contraddizione, o un cambio di direzione prima presentato come impossibile, logiche strambe o del tutto inesistenti, ma tutto questo fa parte del fascino dei giochi dei bambini, del quale infondo “Doctor Who” è l’espressione massima: una rilassatezza assoluta aleggia con prepotenza su tutta la struttura dello show, e permette di struggersi o di gioire a prescindere dall’esattezza degli eventi.
Sopra tutto questo si erge il Dottore, garante di regole che lui stesso infrange, taumaturgo e guerriero, fratello o marito o padre per chi lo accompagna, prestigiatore e ammaliatore che, nella sua sconfinata e multiforme intelligenza, rappresenta un’ennesima incarnazione di uno degli archetipi dell’essere umano, come lo furono Gilgamesh oppure Odisseo: il Viaggiatore.
Chiara Orefice