Le origini dell’esilio e la sua teorizzazione letteraria che, partendo dal mondo classico, influenzerà le epoche successive: l’esilio di Ovidio e l’opinione di Plutarco.
“Se i Sinopi mi hanno condannato all’ esilio, io li condanno a restare in patria!”
(Diogene)
La parola “esilio” deriva dal latino “exilium” e significa “allontanamento dal territorio”. Usato come strumento di punizione contro chi si oppone al potere, l’esilio ha caratterizzato la storia di ogni tempo e ha colpito soprattutto gli intellettuali, figure che a volte sono associate proprio a tale opposizione. Gli stessi intellettuali hanno poi avuto modo di elaborare visioni proprie dell’esilio, che trovano come sbocco la via letteraria.
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Claudio Gullién e la teorizzazione dell’esilio letterario
Una teorizzazione dell’esilio nella storia della letteratura è stata fornita dallo scrittore e comparatista Claudio Gullién. Nel 1995 diede alle stampe un saggio dal titolo emblematico: Il sole degli esuli, letteratura ed esilio. In quest’opera Gullién teorizza l’esilio basandosi principalmente su due archetipi:
– Un archetipo plutarchiano, in cui l’intellettuale vede nell’esilio qualcosa di positivo e un’occasione per poter coltivare il proprio animo.
– Un archetipo ovidiano, dove invece l’intellettuale è pervaso dalla malinconia verso la propria terra natale ed esprime la propria tristezza nel non poter farvi ritorno. Quindi ci troviamo davanti ad un modello negativo.
L’esilio in Grecia: Plutarco
Il primo trattato sull’esilio è attribuito allo storico greco Plutarco, autore di un trattato sull’argomento intitolato Sull’esilio. L’autore mostra come alcuni intellettuali, esiliati dalla Grecia e mandati in terre lontane dalla madrepatria, affrontarono l’esilio e non può fare a meno di notare come le loro esperienze furono fruttuose:
Come sembra agli antichi le muse imposero le più belle e insigni opere servendosi dell’esilio. L’ateniese Tucidide scrisse la guerra del Peloponneso e degli ateniesi presso la foresta delle miniere in Tracia, Senofonte a Scillunte Elea, Filisteo in Epiro e Timeo di Tauromene ad Atene, Androzione l’ateniese a Megera e il giulidiese Bacchilide nel Peloponneso. Tutti costoro ed altri anche se erano esiliati della patria non cambiarono idea, né si abbatterono, ma trassero profitto della bellezza dei luoghi considerando l’esilio come una risorsa contro la cattiva sorte; per il quale sono ricordati dovunque dopo che sono morti e di loro che sono esiliati anche se in disaccordo non si può tralasciare neppure un’opera, perciò è persino ridicolo chi ritiene che si riceva infamia con l’esilio.
Si può evincere allora che Plutarco veda nell’esilio un’ occasione per l’intellettuale di potersi dedicare alla riflessione filosofica e alla contemplazione della natura. L’autore preme proprio su l’ultimo punto, arrivando addirittura ad affermare che non esistano persone “esiliate” per il semplice fatto che tutti gli uomini condividono lo stesso cielo e che quindi sono ( recuperando le parole di Epitteto) “cittadini del mondo“.
L’esilio di Ovidio
L’opposto della medaglia è rappresentato dall’esilio di Ovidio. A differenza degli intellettuali greci il poeta non fu esiliato in terra straniera, bensì in una terra facente parte di quell’enorme complesso che era l’impero romano.
L’esilio di Ovidio è datato 8 d.c. e fu deciso dell’imperatore Augusto, che esiliò il poeta a Tomi (l’attuale Costanza, in Romanìa). I motivi dell’esilio di Ovidio sono spiegati dallo stesso poeta nel secondo libro dei Tristia. Ai versi 206-207 l’autore scrive che:
Due crimini mi hanno perduto, un carme e un errore:
di questo debbo tacere quale è stata la colpa.
Da questi due versi, gli studiosi hanno intuito che l’esilio di Ovidio avvenne per due motivi: il primo fu la sua relazione con Giulia maggiore, nipote dell’imperatore e moglie di Tiberio che fu cantata negli Amores con lo pseudonimo di “Corinna” (un errore). Il secondo fu invece per la natura delle sue opere (un carme) , come la celebre Ars amatoria, in contrasto con i principi di quella restaurazione morale voluta dallo stesso Augusto.
Ovidio assumerà un atteggiamento negativo nei confronti dell’esilio. Lontano da Roma e relegato in una terra straniera, dove l’uso di una lingua diversa dal latino e l’ostilità della popolazione rendono l’esperienza ancora più dolorosa. Un esempio ci è offerto dal terzo libro dei Tristia, dove il poeta contrappone l’arrivo della primavera a Tomi, una tipica primavera naturale, con l’arrivo della primavera a Roma il cui arrivo è segnato dagli eventi mondani: ludi, feste e rappresentazioni teatrali. Ovidio si sente quindi “tagliato fuori” dalla vita culturale e nega la possibilità di vedere nell’esilio un qualcosa per elevare il proprio spirito e per sentirsi unito all’ambiente circostante. Un atteggiamento che accompagnerà il poeta fino alla morte, avvenuta nel 17 d.c., il quale non farà mai più ritorno a Roma.
Due modelli ricorrenti nella letteratura dell’esilio
Dopo aver tracciato questi due archetipi, Claudio Gullién nel suo saggio mostra come ritornino nelle epoche successive, presentandosi spesso diverse o addirittura mescolate tra di loro. Modelli che quindi non sono relegati al solo mondo classico, ma che confinano anche in altri tempi e spazi e in cui si specchieranno altri personaggi importanti (Da Dante a Du Fu, da Foscolo a Neruda), di cui tratteremo negli articoli successivi.
Ciro Gianluigi Barbato
Bibliografia
C. Gullién – El sol de los destterados. Litteratura y exilio (1995)
Sitografia
Plutarco – Sull esilio (testo in inglese): http://penelope.uchicago.edu/Thayer/E/Roman/Texts/Plutarch/Moralia/De_exilio*.html
Pagina relativa ad Ovidio su “Enciclopedia Treccani: http://www.treccani.it/enciclopedia/publio-ovidio-nasone/