Il 500 è un’epoca di enorme vivacità culturale, il cui cuore pulsante è rappresentato dall’Italia. La riscoperta dei classici e l’idea dell’uomo al centro dell’universo ( e non più Dio) sono gli ingredienti fondamentali di quello che passerà poi alla storia come rinascimento. Le corti italiane si riempiono così di grandi poeti e scrittori, ma gli intrighi politici porteranno questi ultimi anche ad essere accussati e condannati. Un destino per niente raro che, tra le varie figure, toccò anche a Niccolò Machiavelli. Ma succede anche che l’esilio si trasformi in un tema letterario, come nei sonetti di du Bellay.
L’esilio nelle Lettere di Machiavelli
[…]
Più il mio piccolo Liré del monte Palatino,
E più dell’aria marina la mitezza angioina.
(du Bellay – Sonetto 31)
Nel 1512 Machiavelli, accusato di aver partecipato alla congiura contro i Medici ordita da Pietro Paolo Boscoli, fu cacciato da Firenze. Rifugiatosi nella piccola tenuta di Sant’Andrea in Pecussina (l’Albergaccio), Machiavelli affronterà l’esilio con un certo stoicismo. Testimonianza di ciò è la più famosa delle sue Lettere, inviata all’amico Francesco Vettori il 10 dicembre 1513. Ritrovatosi disoccupato, l’autore descrive all’amico le sue giornate:
Io mi lievo la mattina con el sole et vommene in un mio boscho che io fo tagliare, dove sto dua hore a rivedere l’opere del giorno passato, che hanno sempre qualche sciagurea alle mane o fra loro o co’ vicini […]
Da questi pochi righi si capisce come la vita dell’esiliato Machiavelli sia molto semplice. Approfitta della mattina per ritanarsi in un boschetto e rileggere le bozze delle sue opere, assistendo anche alle vicende personali di alcuni popolani. La grande quantità di tempo libero gli permette di potersi inserire nelle occasioni mondane di queste persone dal più umile grado sociale, ma non manca neanche il tempo di dedicarsi alle sue letture:
Mangiato che ho, ritorno nell’hosteria: quivi è l’hoste, per l’ordinario, un beccaio, un mugniaio, due fornaciai. Con questi io m’ingaglioffo per tutto dì giuocando a criccha, a triche-tach, et poi dove nascono mille contese et infiniti dispetti di parole iniuriose, et il più dele volte si combatte un quattrino […]
Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio quella veste contidana […] et rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui huomini dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui […]
Utilizzando un registro teso tra il comico e il serio, Machiavelli mostra il senso di vuoto causato dal licenziamento dalla corte dei Medici. Non avendo più alcun incarico diplomatico cerca di colmare il tedio della vita sia attraverso l’ozio, sia attraverso lo studio. Questo stretto contatto con il mondo delle lettere porterà Machiavelli a produrre gli embrioni di due delle sue opere più importanti: I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio e il De principatibus, (cioè, Il principe):
E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo havere inteso, io ho notato quello di che per la loro conversione ho fatto capitale, et composto uno opuscolo De principatibus […]
Nonostante l’esilio gli dia la possibilità di essere produttivo, Machiavelli non nasconde l’amarezza nei confronti di un destino ingiusto. Infatti, in una lettera del 23 novembre dello stesso anno, l’amico Vettori descrive all’autore gli impegni diplomatici che esegue per ordine di papa Leone X, ovvero Giovanni de’ Medici. Pur trattandosi di modesti impieghi, Machiavelli non può fare a meno di confrontare la vita dell’amico con la sua, vuota e monocorde. Non ha quindi la speranza del Dante nell’epistola a Cino da Pistoia, ma solo un’amara rassegnazione che tenta di mascherare con l’autoironia. Tuttavia Machiavelli si riconcilierà con i Medici e tornerà a Firenze il 3 febbraio 1514.
L’esilio fittizio di du Bellay
Molto diversa è la vicenda del poeta francese Joachin du Bellay. Non è stato accusato dall’autorità come Machiavelli o Dante, nè è dovuto scappare per una rivolta come Du Fu e non è costretto all’esilio per aver sedotto una donna come Ovidio. Una semplice mansione diplomatica è il motivo di quello che, in effetti, proprio un esilio non è.
Nel 1553 il poeta è costretto a seguire a Roma lo zio Jean du Bellay, segretario della corte pontificia. Il poeta rimase deluso quando, illudendosi di trovarsi davanti ai fasti di quella Roma antica cantata dai poeti classici, comprese di avere davanti un ambiente immerso nella frivolezza e nel lusso sfrenato. I quattro anni di permanenza nella capitale porteranno du Bellay alla scrittura dei Les Regrets, raccolta di sonetti dove la critica verso Roma (descritta come una vera e propria Babilonia) si alterna alla nostalgia verso Angiò, il paese natio.
Per comprendere bene l’animo del poeta bisogna soffermarsi sul sonetto 31, dove protagonista è un del mondo classico: Ulisse.
Felice chi, come Ulisse, ha fatto un bel viaggio,
O come quello che conquistò il Vello,
Poi è tornato, pieno di giudizio e ragione,
Vivere tra i suoi il resto della sua vita!Quando rivedrò ahimè, del mio paesino
Fumare il comignolo, e in quale stagione
Rivedrò il recinto della mia casetta,
Che è per me una provincia e molto di più?[…]
Il poeta crea un paragone significativo con l’eroe omerico. Se questi tornò nell’amata Itaca nonostante l’avversione della divinità, du Bellay si trova invece in una situazione di immobilità voluta dal ruolo di prestigio dello zio. Ecco allora che la malinconia prende il sopravvento, facendogli desiderare il ritorno nell’amato paese di Angiò. Alla grandiosità sfarzosa e monumentale della “caput mundi”, du Bellay oppone la semplicità del suo luogo natale.
[…]
Di più mi piace il posto che hanno costruito i miei avi,
Che non dei palazzi romani la fronte audace,
Più del marmo duro mi piace l’ardesia fine:Più la mia Loira gallica del Tevere latino,
Più il mio piccolo Liré del monte Palatino,
E più dell’aria marina la mitezza angioina.
Diversamente da Machiavelli, du Bellay non desidera la grandiosità di un ruolo diplomatico e a questa oppone un bucolico desiderio di tranquillità. Si può allora concludere dicendo che du Bellay prosegue il rapporto tra “vita e letteratura”, già inaugurato da Dante nella Commedia. Tuttavia si osserva anche come l’esilio non sia più relegato alla sfera concettuale della condanna politica: ora è anche uno stato mentale, un qualcosa sentito in profondità nell’animo umano. In poche parole, l’esilio inizia a divenire un tema letterario.
Ciro Gianluigi Barbato
Bibliografia
Gian Mario Anselmi , Loredana Chines, Elisabetta Menetti – Tempi e immagini della letteratura, vol.2 – pag.209-213