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“Boccioni aveva scoperto Balla, da poco tornato da Parigi, e tutto penetrato dalle idee dell’impressionismo. Fu Giacomo Balla, divenuto nostro maestro, che ci iniziò alla nuova tecnica moderna del Divisionismo[…] era un uomo di assoluta serietà, profondo riflessivo e pittore nel più ampio senso della parola. Sull’esempio di pittori francesi aveva un amore esclusivo della natura, a cui domandava tutta l’ispirazione fino all’eccesso… Balla dipingeva con colori separati e contrastanti, come i pittori francesi, la sua qualità pittorica era di prim’ordine, genuina, con qualche analogia con la materia e la qualità di un Pissarro. Fu una tale fortuna per noi incontrare un tale uomo, la cui direzione decise forse tutta la nostra carriera”.
È Severini a parlare, quel Gino Severini che insieme ad Umberto Boccioni, agli inizi del nuovo secolo, giovani e insoddisfatti studenti dell’Accademia, saranno assidui frequentatori dello studio romano del pittore Giacomo Balla, avanguardista nella capitale della nuova tecnica del Divisionismo.
Giacomo Balla nasce a Torino il 18 luglio 1871, e già da adolescente dimostra una forte predilezione per l’arte, ma anche per la musica, avvicinandosi allo studio del violino. Nel frattempo il padre, chimico industriale e dilettante fotografo, gli trasmette la passione per la fotografia, iniziandolo ad una tecnica che sarà fondamentale per la sua pittura.
Dopo gli studi superiori, frequenta (anche se per pochi mesi) l’Accademia Albertina, dove studia prospettiva, anatomia e composizione geometrica.
Il passo successivo lo porta a lavorare come assistente in un importante studio di fotografia, quello di Oreste Bertieri, dove ha la possibilità di incrociarsi con personaggi dell’aristocrazia e alta borghesia torinese, scrittori e artisti, tra i quali Pellizza da Volpedo.
Sarà proprio quest’ultimo ad esercitare un’influenza profonda nell’arte di Giacomo Balla tra gli ultimi anni dell’ottocento e i primissimi del novecento, aprendolo alla lezione divisionista.
Nel 1895 si trasferisce a Roma (dove morirà nel 1958). Nella capitale, Giacomo Balla si interessa a soggetti imbevuti di socialismo umanitario mostrando una decisa attenzione nei confronti degli emarginati e degli oppressi, degli esclusi, verso i quali sente di dover fare qualcosa, una denuncia sociale attraverso il messaggio artistico.
Tale mondo umano troverà spazio nella realizzazione di tele del “ciclo dei viventi”: Il mendicante (1902) la cui figura di intensa pietà è colta nella chiesa di Santa Maria in Cosmedin, Il contadino (l’ortolano) 1903, I malati (1903), povere cavie degli esperimenti delle cure elettriche, dove le apparecchiature simili a sbarre danno il senso di condizione di prigionia; e in ultimo La pazza (1905) ritratto di Matilde Garbini, sua vicina di casa, malata di mente, il cui volto disperato porta il segno della pazzia e dell’alienazione.
L’attenzione però sarà data anche al paesaggio urbano, alle belle vedute romane, come nel caso del “Parco dei Daini a Villa Borghese”, nonché ai problemi legati all’industrializzazione delle periferie, al tema delle case in costruzione, alternando a questi anche una produzione di ritratti ufficiali.
La giornata dell’operaio (1904), è un’opera concepita a Milano (dove si era trasferito), visione simultanea di un edificio in costruzione al mattino, sulla sinistra, con gli operai in attesa di iniziare il lavoro e a destra visto di sera, alla luce di un lampione, quando il lavoro si è da poco concluso.
La tecnica divisionista si accompagnava a Giacomo Balla a uno studio scrupolosamente oggettivo della ripresa dal vero, con un inusuale libertà di tagli prospettici quasi come l’inquadratura di una macchina fotografica, colta a cogliere il valore d’istantanea della natura.
Salutando (1908) è la veduta di due donne che salutano dalle scale con inclusa la riproduzione in primo piano della rampa superiore. La tessitura pittorica di estrema raffinatezza e la straordinaria sensibilità della luce, simula meravigliosamente la sensazione del movimento appena interrotto o in corso, dando l’idea del tempo.
L’approfondimento dello studio delle vibrazioni luminose, la ricerca della registrazione ottica della realtà e il senso del dinamismo lo condurranno al Futurismo, con l’adesione al Manifesto dei pittori futuristi del 1910 e nel 1915 alla firma con Depero del Manifesto della Ricostruzione futurista dell’Universo; perseguendo pur sempre una propria libera interpretazione del linguaggio astratto contraddistinto da sperimentalismo e originalità.
Nel 1937, però, lascia per sempre l’avanguardia e ritorna alla pittura realista, lavorando prima della sua morte a stretto contatto con le figlie, Luce e Elica, entrambe pittrici.
Marina Borrelli