Il colore dei boschi è di un verde così vario da far credere nuove esistenze. Abbiamo visto le fate, gli elfi e i cavalieri; abbiamo udito il loro canto d’amore e le loro preghiere. Questo sogno si chiude nel pieno dell’infanzia. Eppure, la leggenda fu cristallizzata da una mano esperta: quella di Edmund Spenser, autore della Regina delle Fate.
Indice dell'articolo
La Regina delle Fate: una cultura completa
Tutto per amore, nulla per la ricompensa
Siamo nel 1590, il pieno della stagione elisabettiana. Edmund Spenser, al pari del grande conterraneo William Shakespeare, elabora non solo la cultura anglosassone. Egli si spinge oltre, guarda con curiosità l’operato di Ariosto e di Tasso; gli antichi lavori di Chrétien de Troyes, i grandi cicli bretoni e le chanson de geste. Contenuti così vari e ricchi non solo di epos andranno a fondersi nella tiara della Faerie Queene.
Al lavoro del vicino tempo, Spenser accosta il grande repertorio greco e latino. La Regina delle Fate doveva essere costituita da dodici libri, quei dodici libri in cui si svolgono le gesta del pio Enea. Il rapporto con Virgilio non si manifesta soltanto della struttura: è un rapporto di morale, di icone e di immagini. Non a caso, la Regina delle Fate incarna un pernicioso cammino allegorico.
Il percorso allegorico
Tutta la vicenda si svolge intorno alla corte della Faerie Queene Gloriana. A circondare la sua alta presenza, vi sono dodici cavalieri in lotta per la gloria; ognuno di loro incarna determinate virtù cavalleresche: la giustizia, la santità, la castità, la temperanza. Il gran numero di personaggi cela, in realtà, un gran numero di rimandi storici e ideologici. La fata Gloriana è specchio della grande Elisabetta I d’Inghilettera; Artegal, cavaliere della giustizia, riflette sulla punta del suo scudo gli eventi storici del tempo. Notiamo quindi che la realtà si mescola alla finzione, viene da essa vestita di ghirlande. Anche la storia china il capo alla fantasia.
Il rapporto con la produzione italiana
Già da questi aspetti è evidente una certa somiglianza con quanto enunciato da Tasso sui metodi e la formazione del buon poema eroico. Mostrare e nascondere le virtù, tramutarle in figure che non annoino il lettore. Se da un lato abbiamo l’autore della Gerusalemme, dall’altro abbiamo il poeta degli estensi, Ludovico Ariosto. Dell’Orlando Furioso è ripreso lo sfrenato gusto immaginifico, il tema del labirinto e della corsa:
Loro non possono trovare il sentiero, che fu mostrato all’inizio,
Ma vagano avanti e indietro per sentieri sconosciuti.
Come non ricordare il Canto I del Furioso? Si gira intorno alla meta ricercata, si scappa dalla bufera e si cerca riparo dall’incertezza: i personaggi della Regina sono intrappolati nella rete della creazione.
La strofa spenseriana
Il più grande contributo di Spenser alla letteratura successiva è da cercare nel metro poetico utilizzato nella Faerie. Costruendo le stanze sul pentametro giambico (forma metrica tradizionale della poesia inglese, figlio, di fatto, dell’endecasillabo nostrano) Spenser chiude con un verso alessandrino composto da due settenari. Il risultato di tale esperimento è una lettura armoniosa, vivace, incalzante e riflessiva ad un tempo. La strofa spenseriana sarà la base del lavoro di Wordswroth, Keats, Tennyson e Byron. Saranno questi autori a conferire a Spenser l’epiteto di “poeta dei poeti”.
Essere a capo di una generazione e nascondere la barbarie di un secolo dietro il piacere della fiaba. Queste non sono le uniche caratteristiche del prestigio. La grandezza di Spenser fu il suo mancato pregiudizio, il saper guardare oltre il Tamigi, oltre la Santa Inghilterra. E la fantasia si posa sulle anime di coloro che ascoltano.
Silvia Tortiglione
Fonti:
La Regina delle Fate; Edmund Spenser_Canto I