Prendete un uomo qualunque in una città come Parigi, mettetelo in un appartamento di un palazzo alquanto singolare abitato da uomini e donne piuttosto strani, aggiungeteci il suicidio di una giovane donna nel medesimo palazzo ed ecco che avrete L’inquilino del terzo piano. Tratto dal romanzo Le locataire chimérique di Roland Topor, L’inquilino del terzo piano è diretto da Roman Polanski, uno dei registi più geniali che il cinema europeo abbia mai avuto, il quale è anche sceneggiatore del film insieme a Gérard Brach. Ma Roman Polanski non si ferma solo all’aspetto “tecnico”. Egli infatti interpreta, anche magistralmente a detta di molti, il protagonista di questo dramma, offrendo inoltre la sua voce in molte lingue, tra le quali anche l’italiano. Uno dei film sicuramente più famosi del regista polacco e che meglio esprime il suo modo di fare cinema e il suo stile.
La trama del film racconta di un giovane polacco immigrato, Telkovski (Roman Polanski), che prende in affitto un appartamento, abitato in precedenza da una giovane donna, Simone Choule, la quale si è suicidata lanciandosi dal suo appartamento del terzo piano per motivi sconosciuti. In un’atmosfera di tensione crescente, Telkovski finisce per vivere sempre di più in un incubo, colpito soprattutto dallo strano comportamento dei vicini, inquietanti e misteriosi. Alla fine, il giovane Telkovski, finisce per identificarsi con la giovane Simone Choule e come fece la giovane prima di lui, si lancia dalla finestra, prigioniero ormai di un mondo allucinante e contorto. Il film si concluderà con un finale enigmatico e raccapricciante.
Polanski tra dramma, incubo e mistero
Con un piano di sequenza che apre questo film, Roman Polanski rappresenta il luogo deputato della sua rappresentazione. Un teatro del macabro e del grottesco di cui il protagonista del film diverrà l’ attore principale. L’inquilino del terzo piano è sicuramente il più claustrofobico e kafkiano tra i film di Polanski, un film che per molti aspetti, potrebbe ricordare Rosemary’s baby. Di quest’ultimo film, anch’esso un capolavoro, riprende il tema dei vicini complottisti e del protagonista solo contro la società. Telkovski come Rosemary, è la vittima di un complotto, ai limiti della sua fantasia, che lo porta ad essere una pedina ingabbiata in un meccanismo contorto e più grande di lui e così, solo e esiliato nelle mura della sua apparente follia, è destinato ad un destino beffardo se non tragico, dal quale l’individuo non può liberarsi.
Il film è idealmente diviso in due parti. Una prima parte in cui si può dire che non succede nulla, dove anzi regna la tranquillità e il regista si diverte con un tono anche ironico, tipico di Polanski, nel presentare i personaggi di questo dramma, iniziando però ad inserire pian piano degli elementi che improvvisamente conducono lo spettatore nella seconda parte del film. Così nel dramma in un crescendo perturbante, attraverso un gioco perverso di luci e ombre, iniziano ad accadere fatti sempre più strani, le stranezze si aggiungono ai misteri, fino a che il protagonista si ritrova immerso nel vortice di un incubo, un incubo che nella testa del protagonista, forse, lo porta ad essere lo spettacolo dei suoi vicini, diventati ormai dei mostri che godono della follia del povero Telkovski, identificatosi ormai completamente con la giovane Simone.
Il film continua ad avere oggi lo stesso fascino di allora anche per il fatto di essere aperto a molteplici interpretazioni, che vanno dal soprannaturale al religioso, dallo psichiatrico all’angoscia di vivere. Alla fine di questo dramma, con una scena tra le più memorabili della storia del cinema, il regista si serve di un urlo tremendo e spaventoso, che infonde nello spettatore una paura irrazionale, che lo pervade e fa sì che metta in dubbio tutto ciò che ha visto. Un senso di angoscia che persiste anche in chi ha visto il film nel lontano 1977, un mistero che resterà tale, data l’impossibilità di penetrare nel profondo enigma di questo dramma.
Roberto Carli