Orson Welles nasce a Kenosha, il 6 maggio del 1915 ed è uno dei personaggi più poliedrici del Novecento: è stato attore, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico.
Orson Welles, una grossa minaccia per lo studio system
Welles fa il suo ingresso a Hollywood dalla porta principale, ha già una consolidata fama di enfant prodige e di rivoluzionario del linguaggio e del funzionamento dei media. Si presenta al mondo del cinema già con una consolidata carriera teatrale (regista, scenografo, attore, autore) ed è reduce dal clamore suscitato dalla beffa radiofonica giocata a tutto il mondo con l’adattamento della Guerra dei mondi (Herbert G. Wells) attualizzandolo in stile cronaca, facendo un finto annuncio di uno sbarco alieno sulla terra la sera del 31 ottobre del 1938.
Al giovane Welles, di soli ventiquattro anni, la RKO concede delle libertà inaudute per l’era dello studio system e gli offre una rischiosa autonomia.
Dopo vari progetti andati a male viene alla luce Quarto Potere (1941), il più grande successo cinematografico di Welles. Alla sua uscita, il film verrà considerato come un successo dalla critica e addirittura Erich von Stroheim dira: «Citizen Kane passerà alla storia del cinema. Pieni poteri a Welles!»
Orson Welles era, tuttavia, una minaccia per Hollywood, una minaccia rivoluzionaria. Egli infatti è riuscito a rimodulare la logica produttiva, narrativa e linguistica della Hollywood classica. Il fatto che l’intero processo produttivo di un film fosse scelto dall’autore\regista stesso è un qualcosa di sconvolgente ed è destinato a lasciare tracce profonde e durature, a modificare la storia del cinema, così come la stessa riflessione teorica.
Con Quarto potere Orson Welles inaugura un modo di narrare che eccede su tutti i punti di vista; da quello tematico (dilatando la vicenda sul piano storico, morale, psicologico) e su quello drammaturgico (forzando il linguaggio classico nella rappresentazione di una realtà che è prospettica, contraddittoria).
Dopo questo film, tuttavia, la sfida lanciata a Hollywood non ha potuto proseguire. Dopo L’orgoglio degli Amberson Welles viene licenziato dalla RKO e il film viene distribuito in una versione eccessivamente manipolata e censurata dalla casa di produzione. La carriera successiva di Welles viene più volte ostacolata e ciò lo ha costretto ad abbandonare Hollywood e a trasferirsi in Europa.
Riuscirà quindi a realizzare Macbeth (1948), Otello (1952), L’infernale Quinlan (1958), Il processo (1962), F come falso (1975) e del 1971 riceve l’Oscar alla carriera. Diciassette anni dopo la sua morte, nel 2002, viene votato dal British Film Institute come il più grande regista di tutti i tempi e l’American Film Institute lo inserisce al sedicesimo posto tra le più grandi star della storia del cinema.
«Signor Marcus- disse in tono così sincero che la voce gli tremò – non mi stupirebbe se Orson Welles fosse la più grossa minaccia piovuta a Hollywood da anni. Si becca 150.000 dollari a film e non mi stupirei che fosse così estremista da costringervi a rifare tutte le apparecchiature e a ricominciare tutto da capo, come avete fatto nel ’28 col sonoro.
– Oh, mio Dio! – gemette il signor Marcus.»[1]
Quarto potere e la profondità di campo
È la storia del cittadino Kane raccontata a ritroso (dalla morte, attraverso le testimonianze di chi gli è stato vicino), è un labirinto. Attraverso il pretesto della ricerca del significato dell’ultima parola pronunciata dal protagonista in punto di morte (Rosebud) il film insegue un senso che, tuttavia, rimarrà inafferrabile.
Con Quarto potere, Welles non solo mette in discussione il processo produttivo cinematografico in sé (data l’autonomia totale che gli fu data), ma è stato in grado di rivoluzionare anche gli stessi elementi estetici che si erano consolidati con il découpage classico.
Come si è detto negli articoli precedenti, uno dei presupposti del découpage classico è la costruzione di un’illusoria continuità e invisibilità dei processi di scrittura del film. La profondità di campo[2], utilizzata nel cinema delle origini ma poi caduta in disuso per ragioni tecniche ma anche per ragioni estetiche (per Bazin è una diretta conseguenza dell’introduzione del montaggio), ritorna prepotentemente grazie all’utilizzo che ne fa Welles in Quarto potere. Proprio dopo questo film, infatti, la profondità di campo verrà considerata come «un’opzione estetica moderna, funzionale ad una concezione del cinema che lavori sulla realtà e sulla sua rappresentazione conferendo ad esse un senso molteplice e aperto.»[3]
«Non è esagerato dire che Quarto potere non è concepibile che in profondità di campo. L’incertezza in cui si resta a riguardo della chiave spirituale o dell’interpretazione è iscritta nel disegno stesso dell’immagine.»
– Bazin
Altro elemento di trasgressione è la mancanza di un tempo lineare, la struttura temporale è composta da continui salti in avanti e indietro. La storia diventa quindi un racconto soggettivo e influenzato dal pensiero dei narratori.
Il tentativo di trasmettere attraverso lo stile il senso del film (dilatando spazio e tempo con il ricorso a piani-sequenza e a riprese in profondità di campo) e l’uso di realtà scenograficamente complesse (ci sono le ricostruzioni dei soffitti fatti in studio, la norma hollywoodiana lo escludeva), a volte anche sovrabbondanti sono delle caratteristiche che rendono unitaria e compatta l’intera filmografia di Orson Welles. Sono delle caratteristiche che si ripresentano di volta in volta: dai film di genere (The lady from Shanghai – 1947 o Touch of Evil – 1958); ai film in cui la tematica si esprime su base letteraria (The Trial-1962 o Othello – 1952). Un’opera che vede nella falsità materiale della rappresentazione da sola dimensione estetica capace di arrivare ad una verità sul piano drammatico è, invece, F for Fake del 1975.
https://www.youtube.com/watch?v=fuhuZS-NMDw
Cira Pinto
1Pat Hobby e Orson Welles, (1962) in Francis Scott Fitzgerald, I racconti di Pat Hobby. L’età del cinema, Theoria, Roma- Napoli 1996, pag. 56.
2Profondità di campo: tipo di inquadratura in cui tutto il campo è a fuoco.
3Introduzione alla storia del cinema, a cura di Paolo Bertetto, 2010, pag. 134.