Per lungo tempo Antonello da Messina ebbe la strana condizione di figura notissima e, allo stesso tempo, misteriosa come poche.
Nato in una città e in una regione del tutto estranee alle grandi invenzioni del Quattrocento italiano, egli divenne uno degli artisti più celebri del Rinascimento, grazie a un suo trasferimento a Venezia, dove tuttavia rimase per poco più di due anni. Nei secoli successivi la collocazione prevalentemente privata delle sue opere, la scarsa conoscenza dei fatti artistici e dei dipinti conservati in Italia meridionale, i ripetuti e disastrosi terremoti che colpirono la Sicilia, fecero sì che al nome del pittore fosse associata una personalità artistica avvolta in una sorta di nebbia.
La riscoperta di Antonello da Messina avviene solo a partire dal 1860 grazie al viaggio in Sicilia e alle scoperte dello studioso Giovanni Battista Cavalcaselle, che fecero si che l’interesse per questo artista finalmente rifiorisse. Fino a questo momento infatti le notizie sull’artista erano esclusivamente quelle date nelle “Vite de più eccellenti pittori, scultori e architetti” di Giorgio Vasari. Secondo il biografo aretino Antonello, dopo un periodo di studio del disegno a Roma, partì per le Fiandre per apprendere la nobile tecnica della pittura ad olio dal Van Eyck. Trasferitosi a Venezia l’artista avrebbe raggiunto la notorietà e trasmesso i segreti dei fiamminghi a Domenico Veneziano, il quale li avrebbe portati in Toscana, introducendo così a Firenze la nuova tecnica ad olio. Antonello sarebbe poi morto a quarantanove anni nella città lagunare.
Le notizie vasariane, come spesso accade, non sono del tutto attendibili: il contatto di Domenico Veneziano con il mondo fiammingo sarebbe avvenuto molto prima, nel 1441, quando Antonello probabilmente era poco più di un bambino.
La sua data di nascita è infatti comunemente fissata all’anno 1430 e morì a Messina, non a Venezia, nel 1479, come prova il suo testamento e da altri documenti successivi. Furono però il ritrovamento e la pubblicazione di un altro documento a far si che gli studi sull’artista potessero fare degli enormi progressi: nel 1925, dopo alcune trascrizioni parziali, venne data alle stampe in forma integrale una lettera, rimasta ignota per quattro secoli, indirizzata dall’umanista napoletano Pietro Summonte al letterato veneziano Marcantonio Michiel. La lettera risale al 1524 ed è una fonte preziosissima perché contiene informazioni dettagliate sul clima artistico napoletano della metà del XVI secolo: il Michiel infatti stava raccogliendo notizie per stilare una sua storia dell’arte, che purtroppo non portò a termine, ma per la quale raccolse moltissime informazioni, soffermandosi soprattutto sulle opere presenti nelle collazioni private degli aristocratici veneziani. In questa lettera si legge della grande fama del pittore meridionale Colantonio, il quale essendo morto prematuramente non aveva potuto raggiungere la perfezione nella sua arte, perfezione raggiunta dal suo allievo Antonello da Messina.
Da queste informazioni deduciamo che probabilmente Antonello non aveva appreso la tecnica pittorica durante il viaggio a Bruges di cui ci parla il Vasari, ma egli aveva studiato la pittura fiamminga grazie ad i numerosi dipinti conservati a Napoli, e grazie all’insegnamento di Colantonio.
La stretta connessione tra questi due artisti è testimoniata dalla “Crocifissione”, risalente agli anni tra il 1450 e il 1455, attribuita di volta in volta ad Antonello, o al Colantonio: in quest’opera la cura dei dettagli non smentisce la grandezza dell’insieme.
Oltre ai ritratti (soprattutto virili), tra le numerose opere di Antonello, uno dei soggetti che ebbe maggiore successo è quello dell’ Ecce Homo. Delle tante versioni ricordiamo tra le più belle quelle della Galleria Nazionale di Palazzo Spinola a Genova, e quella del Metropolitan Museum di New York.
Una delle opere più belle di questo artista resta però l’ “Annunciata” della Galleria Regionale della Sicilia (Palermo). Qui egli riprende l’idea dell’Annunciazione come evento puramente spirituale, senza dunque la presenza dell’angelo, già realizzata pochi anni prima nell’esemplare oggi presente all’Alte Pinakothek di Monaco di Baviera. Il dettaglio più bello è probabilmente lo sguardo della Vergine, che evoca una profonda riflessione spirituale, e l’unico dettaglio che esprime l’azione è la mano, quella stessa mano che Roberto Longhi definì come “la più bella che io conosca nell’arte”.
Pur nella difficoltà di ricostruirne l’itinerario artistico, la figura di Antonello da Messina si impone come una fra le principali del Rinascimento italiano. La sua arte si presenta come una miscela di componenti mediterranee, fiamminghe e italiane, che si fondono in uno stile assolutamente unico.
Manuela Altruda