Giotto a Napoli: attraverso gli studi ed i documenti dell’epoca, andiamo alla scoperta delle testimonianze napoletane del primo artista in senso moderno. La Napoli del ‘300 allora era capitale di un vasto regno che abbracciava tutto il sud della penisola italiana ricoprendo un ruolo di preminenza istituzionale, pertanto i primi re d’Angiò ne fecero una culla d’arte assoldando le migliori menti dell’epoca.
Da Petrarca, che fu in stretti rapporti con Roberto d’Angiò e per il quale scrisse l’elogio funebre riportato sulla sua tomba nella chiesa di Santa Chiara, agli scultori del calibro di Tino di Camaino e Giovanni e Pacio Bertini con le loro tombe ancora visibili nelle chiese storiche napoletane.
Giotto a Napoli: le testimonianze
Ciò che ci fa comprendere l’importanza rivestita dalla famiglia d’Angiò all’interno dello scacchiere politico delle regni italici e di conseguenza la centralità di Napoli, è l’attestata presenza di Giotto in città e del segno, ormai solo leggermente tangibile, di alcune sue opere.
Ebbene il rivoluzionario dell’arte italiana, colui che ha dato una svolta alla pittura con l’uso tutto nuovo di linea, colore e prospettiva, quello che ha dato vita e realtà alle scene ritratte ha lasciato i suoi insegnamenti in Castel Nuovo e, probabilmente, nella Basilica di Santa Chiara; grazie ad alcuni documenti della cancelleria angioina si è riusciti a risalire al periodo preciso del soggiorno napoletano di Giotto, che si trattenne alla corte di Roberto d’Angiò dal 1328 al 1333.
Gli scritti in questione sono atti di pagamento nei confronti del pittore fiorentino, riportati e studiati già nel corso dei secoli, e a comprovare la loro veridicità ci sono diverse testimonianze; difatti, già della metà del XIV secolo un Commento alla Divina Commedia parla di opere di Giotto in quel di Napoli, sino ad arrivare ad i più accreditati “Commentari” di Lorenzo Ghiberti ed alla “Vite” di Giorgio Vasari che riportano l’attività del nostro artista in Castel Nuovo con un “Ciclo di uomini illustri”.
Gli studi
Negli anni ’60 dello scorso secolo fu Ferdinando Bologna, importante storico dell’arte della scuola italiana, ad analizzare approfonditamente e con metodologia moderna i documenti in questione. Lo studioso fu il primo ad interpretare e a riconoscere quali fossero, realmente, i segni giotteschi individuando nel coro delle monache in Santa Chiara frammenti di un “Compianto su Cristo morto”.
Tra quel che resta degli affreschi di quest’aula, nei secoli più volte rimaneggiata obliterando con consapevolezza uno dei più importanti cicli di affreschi del tempo, il Bologna scovò un piccolo lacerto che lui ascrive totalmente al maestro fiorentino.
Altrettanto fondamentali sono le attestazioni in Castel Nuovo dove, nella Cappella Palatina, ancora ci si può trovare davanti ad opere di Giotto; infatti in quest’ambiente, ultima testimonianza dell’antica
residenza voluta dagli angioini, hanno resistito al tempo e all’uomo piccole testine incorniciate che erano parte di un più ampio ciclo figurativo lasciato incompiuto, probabilmente, per il ritorno a Firenze di Giotto.
È certo che il lavoro che il grande pittore affrontò a Napoli non fosse stato svolto solo da lui, ma che al suo seguito in quei circa 6 anni ci fosse stato uno stuolo di seguaci e di allievi, che poi avrebbero continuato ad operare e a diffondere la poetica del maestro; da segnalare c’è anche un buon numero di artisti del luogo che proprio in quest’occasione conobbe Giotto ed entrò a far parte della sua schiera. Tra essi figurano Giovanni Barrile, Pietro Orimina e quel Roberto d’Oderisio di cui già abbiamo trattato.
Ancora una volta, quindi, la nostra città si trova al cospetto di artisti di alto valore che, appunto come Giotto, erano contesi dalle più influenti e ricche corti europee e che hanno dato, e ne danno ancora, lustro alla nostra storia culturale.
Liberato Schettino