«Renoir contiene tutto il cinema»
– Éric Rohmer,1979.
Jean Renoir è senza dubbio uno degli autori più importanti del cinema francese degli anni Trenta.
Figlio del pittore impressionista Auguste e soprannominato le Patron (coniato da Jacques Rivette[1] e poi utilizzato da tutti i registi della Nouvelle Vague francese), comincia la sua carriera cinematografica nel 1924 con il film muto Catherine ou Une vie sans joie ma si mette in luce solo con il sonoro con La Chienne (La cagna, 1931).
La Chienne racconta di un ménage a trois tra un impiegato, una prostituta e il suo protettore. È un film che, dal punto di vista del cinema classico, presenta delle anomalie; soprattutto per quanto riguarda la collocazione all’interno di un genere. La chienne è, infatti, da un lato un ibrido tra dramma e commedia e, inoltre, rifiuta la classica dialettica tra buoni e cattivi.
In questo film, poi, il regista comincia a definire l’immagine della sua Francia (è ambientato a Montmartre, dove il regista è nato).
«Le scene di strada, l’onnipresenza di Montmartre, delle sue scalinate e dei suoi lampioni a gas, conferiscono a quest’opera, che dà così spesso l’impressione di essere stata girata in esterni, una patina d’epoca e ne fa quasi un documento etnografico. […] Oltre l’apparenza di documento sociologico (il popolo parigino, la piccola borghesia e i mercanti d’arte) Renoir filma l’invisibile: quello che avviene “dietro le fronti, dentro le teste”»[2]
Con il film La grande illusion (1937) Renoir viene premiato agli Oscar come miglior film nel 1939. Il film è ambientato durante la Grande Guerra: alcuni ufficiali francesi sono prigionieri dei tedeschi in una fortezza comandata da von Rauffenstein (interpretato da Erich von Stroheim).
https://www.youtube.com/watch?v=TqJoC9NgYtk
«Ne La grande illusione mi sono sforzato di mostrare che in Francia non si odiano i Tedeschi. Il film ha avuto un grosso successo. No, non è migliore di un altro film, ma traduce semplicemente quello che un Francese medio, mio fratello, pensa della guerra in generale.
Si è per lungo tempo rappresentato il pacifista come un uomo dai capelli lunghi, con i pantaloni strappati, che, seduto su una cassa di sapone, profetizzava senza tregua calamità e entrava in trance alla vista di un uniforme. I personaggi de La grande illusione non appartengono a questa categoria. Sono la replica esatta di come noi eravamo, noi la «classe 14». Ero ufficiale durante la grande guerra e ho conservato un vivo ricordo dei miei compagni. Nessun odio ci animava nei confronti dei nostri nemici. Erano dei buoni Tedeschi come noi eravamo dei buoni Francesi. Sono convinto che lavoro per un ideale di progresso umano presentando sullo schermo una verità non alterata. Attraverso la rappresentazione di uomini che compiono il loro dovere, secondo le leggi sociali, nel quadro delle istituzioni, credo di aver dato il mio umile contributo alla pace mondiale.»[3]
L’influenza della pittura e della letteratura del XIX secolo è stata per Renoir molto forte. Nel 1934 porta sullo schermo: Madame Bovary di Flaubert e nel 1938 L’angelo del male tratto da Zola. Allo stesso modo, la cinematografia di Renoir è fortemente legata al clima politico del tempo, anche nei film meno dichiaratamente impegnati.
In la Chienne e in Boudu sauvé des eaux (1932) vi è l’irrisione dei valori dominanti: in entrambi i film il protagonista sceglie la libera esistenza da clochard piuttosto che le costrizioni di una vita da borghese.
Renoir e lo scardinamento del découpage classico
La regola del gioco (La règle du jeu, 1939) è considerato come uno dei migliori film mai realizzati.
«La Regola del gioco è il credo dei cinefili, il film dei film, il più odiato alla sua uscita, il più apprezzato in seguito fino a diventare un vero successo commerciale dopo la sua terza ripresa in circuito normale e in versione integrale. All’interno di questo “ dramma giocoso”, Renoir agita senza averne l’aria una messe di idee generali, di idee particolari e esprime soprattutto un grande amore per le donne»[4]
La regola del gioco si distingue dal cinema classico non solo perché non rientra propriamente in un genere specifico, ma anche per l’uso della macchina da presa: in diversi momenti del film Renoir opta per il long take [5].
Renoir, in questo modo, sceglie una tecnica di ripresa che esalta la continuità temporale e la tridimensionalità spaziale. È, poi, uno dei registi che riesce a sfruttare la “quarta parete”: il cuoco parla con un interlocutore fuori campo, collocato accanto alla macchina da presa (non guarda dentro l’obiettivo ma ne fa avvertire la presenza).
I registi della Nouvelle Vague hanno contribuito tanto nel processo di rivalutazione delle opere di Renoir, un autore troppo spesso sottovalutato.
«Renoir è il più visivo e il più sensuale dei registi […] quello che più ci trasporta nell’intimo dei suoi personaggi perché è prima di tutto un amante fedele della loro apparenza e, attraverso essa, della loro anima. La conoscenza in Renoir passa attraverso l’amore e l’amore attraverso la pelle del mondo. La flessibilità, la mobilità, il modellato vivente della sua regia è la sua cura di drappeggiare, per il suo piacere e per la nostra gioia, il vestito senza cucitura della realtà.»
– André Bazin, Jean Renoir, Paris 1971.
Cira Pinto
1 Jacques Rivette, Cinéastes de notre temps: Jean Renoir, le Patron, titolo del film-intervista a lui dedicata, 1966.
2 Daniel Serceau, Jean Renoir, St. Amand, 1985.
3 Ecrits (1926-1971), pag. 326-327.
4 François Truffaut, I film della mia vita, p. 48.
5 Long take: è, letteralmente, un’inquadratura lunga. Si distingue dal piano sequenza perché, quest’ultima, è un’inquadratura che svolge da sola il ruolo di un’intera scena, mentre il long take si tratta di una sola delle inquadrature che compongono una determinata scena.