Nell’Aula Magna Storica dell’Università degli Studi di Napoli Federico II il 5 giugno, anniversario della nascita dell’Università, avvenuta nel 1224, viene consegnata al regista napoletano Paolo Sorrentino (noto per L’amico di famiglia, Il divo, La grande bellezza e il recente Youth – La giovinezza), la laurea honoris causa in filologia moderna.
Ad introdurre la cerimonia è il rettore Gaetano Manfredi, il quale spiega che Federico II, fondando l’Ateneo, vide «nella crescita di un’identità culturale il fattore determinante di governo di un mondo che si faceva sempre più complesso», scegliendo come sede una Napoli «crocevia di popoli e depositaria di una millenaria tradizione culturale», preda di incertezza e priva fondamenta sicure.
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La laurea honoris causa, un premio anche per il cinema
Edoardo Massimilla, direttore del dipartimento degli Studi Umanistici, riferisce che l’istituto della laurea honoris causa è previsto dall’articolo 169 del decreto regio 1592 del 31 agosto 1933, da sempre applicato scrupolosamente dall’Università. Per la prima volta, con il conferimento della laurea honoris causa a Sorrentino, l’Ateneo attua «una decisa apertura al mondo del cinema e alla sua straordinaria ricchezza di contenuti artistici e culturali».
La laudatio academica
Nella laudatio academica Corrado Calenda, professore di filologia dantesca, descrive genericamente le opere di Sorrentino, sia nell’ambito del cinema che in quello della scrittura, sottolineando che non v’è dubbio che «vari talenti di cui Sorrentino è dotato siano coordinati ed esplodano nella maestria della sua attività di cineasta». Il cinema di Sorrentino è un cinema di contrasti, di opposti e di contraddizioni, in cui però «il reale è sempre al centro della poetica».
La lectio magistralis di Paolo Sorrentino: illusioni, trucchi e sofferenza
La Federico II ha affidato a Sorrentino il compito di tenere una lectio magistralis sul suo rapporto con il cinema e la scrittura, ma sin da subito il regista chiarisce di non poterlo fare. Scrivere è una «pulsione a mettere ordine nel caos delle suggestioni che ci vengono addosso», un ordine che, alla fine, è un’illusione. Un’illusione che dura nella vita, nel cinema e nella scrittura, in cui il falso regna sovrano, «inquietante e meraviglioso», creando «un universo irresistibile e dunque perfetto».
I mezzi utilizzati dai narratori, rivela Sorrentino, sono «trucchi» ed «espedienti di bassa lega» alla stregua di quelli dei maghi e, come un mago, il regista non può rivelarli, altrimenti non gli rimarrebbe nulla.
L’unica cosa che può rivelare sono ricordi e suggestioni, rievocati da Napoli, città in cui il regista ha trascorso la giovinezza.
Grazie al libro Viaggio al termine della notte (1932) di Louis-Ferdinand Céline, Sorrentino ha compreso in gioventù che il dolore ha una durata maggiore rispetto alle gioie, brevi ed effimere. Vana è ogni speranza di uscire dal dolore, e nessuno «viene mai a capo di niente». Ma è da questo «non venire mai a capo» che, secondo l’autore, hanno origine libri e film, e in cui si dimenano le arti e le esistenze. Il tentativo di uscire dal dolore, trovare vie di fuga, evitare le fatiche non riesce mai, ma è «eccitante e irresistibile».
Nel giovane Sorrentino i sentimenti predominanti erano frustrazione, malinconia e perdita prematura della spensieratezza. Sentimenti che lo hanno «folgorato» e spinto a cercare il suo «universo falso e pieno di trucchi».
La frustrazione
Il carattere dei protagonisti – definiti troppo sapienti, precisi – dei film di Sorrentino proviene dal sentimento della frustrazione.
Lo scrittore descrive la tipica scena in cui tutti noi ci possiamo ritrovare: ci rigiriamo insonni nel letto, a tarda notte, ripensando a tutte le «risposte pronte» che avremmo voluto dare durante la giornata, e che giungono in ritardo divenendo nient’altro che «risposte tardive».
Quando ha avuto l’opportunità di creare personaggi, Sorrentino li ha fatti come avrebbe voluto essere lui da giovane, con la risposta appropriata, decisa, personaggi in grado di amare e agire come lui stesso non è mai riuscito a fare. Tuttavia, «nonostante tutte queste migliorie, il mondo, la loro vita, continua ad apparire loro un’immensa, irrinunciabile fatica».
La malinconia
Sorrentino definisce la malinconia come una «autocompiaciuta sofferenza» senza origini o cause, diversamente dal dolore. La malinconia non scrive storie e trame, come il dolore, ma si serve di immagini suggestive che creano stati d’animo, ed è di questo che Sorrentino parla e vuole parlare, perché è «più sbalorditivo parlare di uno stato d’animo che di una trama».
Perdita prematura della spensieratezza
Riguardo alla perdita prematura della spensieratezza – ricordiamo, infatti, che Sorrentino è rimasto orfano di entrambi i genitori all’età di diciassette anni -, il regista sottolinea come essa provochi traumi, sofferenze e ansie insopportabili, alleviate solo grazie alla propria famiglia, alla scrittura e al cinema.
«Il cinema è un’illusione», ma la serenità può essere raggiunta «nutrendosi della reiterazione perpetua delle illusioni». Sottolineando ancora il proprio stato di inquietudine, Paolo Sorrentino conclude la propria lectio accompagnato da lunghi applausi del pubblico.
Quando vedo i miei attori muoversi così bene, come avrei voluto muovermi io a diciott’anni, quando li vedo parlare, amare, piangere, come avrei voluto fare io a diciott’anni, sto bene, l’ansia svanisce.
Mi illudo il tempo della durata di uno ciak che la loro spensieratezza sia la mia.
Francesca Santoro