La firma di Christopher Nolan viene spiegazzata da anni, passando di mano in mano per essere da uno strappata nel nome del buon cinema di una volta (“…che non si prendeva così tanto sul serio! Ma al tempo stesso, oh santi numi!, come era davvero profondo!”) e poi per essere salvata e innalzata a beneficio delle folle che accorrono a baciarne i lembi.
Si è detto così tanto della bravura di Nolan da primo della classe, che non sbaglia i tempi, che non sbaglia gli attori, che sa scegliere una colonna sonora, che ha raggiunto l’impeccabilità del già-inventato e che il non-ancora-inventato non si azzarda a toccare, che ha un po’ troppa stima di sé, che ha un po’ troppa stima dei budget delle grandi case di produzione perché, infondo, è un bambino ricco che non sa più giocare se non con aggeggi costosi…
Piuttosto che lanciar da questa pagina l’ennesima sentenza “Christopher Nolan è bravo/Christopher Nolan non è bravo”, pensiamo sia più divertente, in verità, delineare le idee chiave e i temi ricorrenti del regista, così, tanto per cambiare. Almeno potremmo passare un po’ di tempo in attesa di altre notizie sul suo nuovo film!
Umano VS umano: risolvere se stessi
I primi lungometraggi di Christopher Nolan sono “Following” (2008), “Memento” (2000) e “Insomnia” (2002). Ora, sono solo dei primi lavori, e come tali potrebbero essere dei semplici esperimenti, oppure le idee che erano nate e si erano sviluppate nel corso della sua formazione. Di sicuro buon esito ha avuto “Memento”, ottimo film anche solo per la sua “palindromia”, cioè il suo risultare godibile sia guardato dall’inizio alla fine che dalla fine all’inizio.
Soprattutto, “Memento” indaga gli effetti e i difetti di quell’argomento sempre nuovo che è la memoria umana. Non riuscire a trattenere ricordi vuol dire perdere il vantaggio dell’esperienza, e ad essa può supplire l’unico potere che resta all’uomo: la sua intelligenza. Sembra quasi profetica per lo stesso Nolan la lezione che dovrebbe imparare – se solo la ricordasse – Leonard Shelby (Guy Pearce): mai avere troppa fiducia nella propria intelligenza, si finisce col perdercisi dentro.
In effetti, Shelby rimane vittima, prima che degli altri, di sé stesso, degli espedienti che aveva trovato e del labirintico sistema che aveva creato, senza più riuscire a scorgere cosa sia vero e cosa falso. Tutto questo richiama apertamente “Inception” del 2010, ambientato per la maggior parte all’interno di una mente. Più precisamente, all’interno di quella parte che è più lontana dal controllo consapevole, assumendo quindi l’aspetto di una terra insidiosa e sconosciuta da andare ad esplorare.
Dom Cobb (Leonardo DiCaprio) è un uomo così brillante da sapersi destreggiare in quella terra sconosciuta, finché è di qualcun altro. Al momento, però, di dover tenere a bada la propria parte inesplorata, ecco che ritorniamo al punto di prima: il rischio di perdersi all’interno di se stessi.
Il potere del genio
Perché Batman? Certo, di mezzo ci sono i soldi, c’è Hollywood, c’è che Christopher Nolan non è mai poco attento alle tendenze del pubblico, ma concediamogli anche un fazzoletto di purezza da far sventolare, un’intenzione artistica scevra dal resto. Potremmo cominciare col dire che Batman è un personaggio cervellotico.
Se in “Memento” l’intelligenza era un’arma a doppio taglio che avvelenava l’umano contro se stesso impedendogli di distinguere realtà e sotterfugio, in “Batman begins” (2005), Bruce Wayne (Christian Bale) viene posto innanzitutto come bambino spaventato e rabbioso che ha bisogno di “sconfiggere” se stesso, la sua fobia e lo strascico del suo passato.
Il Batman di Nolan è il baluardo del raziocinio contro il caos di Gotham, dello Spaventapasseri (Cillian Murphy) e di Joker (Heath Ledger), la cui fedeltà all’anarchia è l’esatto opposto non solo di Wayne, ma di Nolan stesso.
Non è azzardato dire che Christopher Nolan ami la biunivocità tra una causa e un effetto, l’acutezza, la nitidezza: lo dice tutto, nei suoi film. Sono filati e veloci, calibrati nei tempi, laccati e patinati, studiati per essere lucidi e lisci come uno specchio. E tutto questo è il trionfo, ancora, di quell’intelligenza che il regista non smette mai di osannare in quanto superpotere dell’essere umano, talmente devastante e imponente da rischiare di travolgere l’uomo stesso. La trilogia di Batman si prende troppo sul serio per essere un cinecomic? Sì. Ma forse per Nolan il cinecomic era solo un pretesto per dire qualcosa di importante di sé.
Il magniloquente Christopher Nolan e quello delicato
Concludiamo con i due film che forse celebrano più di tutti l’argomento chiave, l’intelligenza umana, nel suo aspetto effettivo, concreto.
Da un lato c’è “The Prestige” (2006), che mette in scena tre livelli di genio umano: quello di Borden (Christian Bale), efficace, semplice, dell’uomo che si destreggia con quel che ha; quello di Tesla (David Bowie), che va oltre, che raggiunge l’inspiegabile; e quello di Angier (Hugh Jackman), che fonde gli altri due ma è completamente mal sfruttato, volto alla vendetta.
Dall’altro lato c’è “Interstellar” (2014), forse il film più poetico di Nolan. Sono messi in rassegna tutti gli esiti di quel fenomenale meccanismo faustiano che spinge l’uomo sempre oltre: la Terra riarsa; il viaggio interstellare; il viaggio nel passato. È di sicuro magniloquente e arrogante nella messa in scena come lo sono sempre stati i film di Christopher Nolan, ma questa volta ha una nota diversa, delicata. Sarà forse il rapporto tra padre e figlia (il bravissimo Matthew MaConaughey e Mackenzie Foy; Jessica Chastain; Ellen Burstyn) che è così fragile; o la lontananza espressa non solo nel buio dello Spazio ma anche nel silenzio del tempo perduto; o magari semplicemente quella colonna sonora stranamente poco aggressiva ma solenne…
C’è qualcosa che a Christopher Nolan non interessa, nonostante tutto il suo amore per il raziocinio: che torni tutto. Allenarsi a pensare e domandare, e incitare a farlo, non significa necessariamente rimettere in ordine dopo. “Interstellar” si alza sulla punta dei piedi e protende un dito verso significati non esattamente rivoluzionari o fondamentali, ma che possano smuovere per un attimo lo spettatore dalle sue certezze e farlo sorridere della propria instabilità, o anche solo che gli facciano avere un brividino di emozione nel ricordarsi che non tutto è già esplorato, all’interno di noi stessi come fuori.
Il prezzo di tutto questo è risultare difettoso, nei molti modi che conosciamo?
“…Okay”, risponde Nolan.
Chiara Orefice