“Siamo innamorati. Vogliamo solo stare assieme. Cosa c’è di sbagliato in questo?”
Moonrise Kingdom, commedia del 2012 diretta da Wes Anderson, è uno di quei pochi film che l’amore te lo sa mostrare nella sua forma più tenera e pura. Uno di quei film che, sebbene il cast sia di tutto rispetto (Bruce Willis, Bill Murray, Edward Norton, Tilda Swinton), passa in secondo piano rispetto alla trama, cosa difficile al giorno d’oggi, dove l’incasso è dato dal nome e non dallo spettacolo.
Guardando l’età dei protagonisti Sam e Suzy, appena dodicenni, ci si potrebbe aspettare la “solita” commedia dove due bambini si conoscono, giocano insieme, si danno il primo bacio, per poi concludere con la solita scena “Tot anni dopo…” dove sono felici e sorridenti, magari che spingono una carrozzina.
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Un amore problematico…
Moonrise Kingdom non è così. I dodicenni non sono felici e spensierati: lui orfano, lei depressa e con tendenze autolesioniste. Eppure l’amore sboccia, nel camerino di un teatro, dove a dispetto di ciò che potrebbe sembrare lui non vede che lei, seppur circondata da ragazzine ben più attraenti (per quanto attraente si possa dire di una bambina). E quello che dovrebbe essere il sentimento più bello, più puro, è subito osteggiato dalle differenze sociali che, anche a quell’età, dividono le persone. Non possono che scriversi, pianificando un’avventurosa quanto improbabile fuga. In fondo vivono su un’isola, più di tanto non possono scappare.
…ma realizzato
La fuga, nonostante ciò, avviene dopo un anno di lettere. E termina su una spiaggia, dove verrà piantata una tenda. Il primo bacio, la prima scoperta dei rispettivi corpi (in biancheria, perché la volgarità non sfiora neanche il film). Questa spiaggia, così vicina al resto dell’isola, vien vista come un paradiso lontanissimo dal resto del mondo… almeno per una notte. Verranno raggiunti, verrà loro vietato di rivedersi, benchè continuino a provarci, e Sam dovrà attendere l’arrivo di un assistente sociale che lo porterà via.
La fine del sogno, ed un sogno che si realizza
Siamo a metà film, cambio di scena. Wes Anderson ci abitua ad una sequenza di scene così ferme nella loro dinamicità che sembra di scorrere una serie di bellissime fotografie. Colori luminosi, perché l’amore puro di quei due bambini è brillante. E i vari ostacoli, rappresentati dalle differenze sociali come dalle persone esterne (anche i compagni di Sam, scout come lui, che tentano di impedire a lui e Suzy la fuga) sono fugaci come una brezza. E come la brezza non possono che far divampare ancor più la fiamma dell’amore avventuroso che stanno per vivere.
Ma l’avventura ha fine. E dopo la luce c’è il buio. Arriva la tempesta, il dolore del distacco. Le scene si fanno cupe, veloci. Non sono più fotografie, che restano ben impresse nella mente. Devono scorrere via, perché è così che si dovrebbe fare con i brutti ricordi: lasciarli scivolare, senza che si sovrappongano a quelli belli.
E poi… non è sempre nel momento del pericolo che si dimostra la veridicità dei propri sentimenti? Non è in quei momenti che dimostriamo agli altri di non dare solo fiato alla bocca? Nel buio di queste scene, interiore ed esteriore, i vecchi nemici della coppia capiscono lo sbaglio, diventano nuovi alleati. Ma non può esserci un vero lieto fine senza almeno un cattivo, rappresentato dall’assistente sociale che dividerebbe i due giovani amanti. In una disperata fuga, vengono infine salvati dal caposcout, che si prenderà cura di Sam.
Il lieto fine arriva. Ed è di nuovo una scena fotografica, luminosa. Perché alla notte segue sempre il giorno, e due amanti non possono essere tenuti lontani.
“Omnia vincit amor” [Publio Virgilio Marone]
Marco Giusto