È difficile stabilire con esattezza quando sia nato il genere del ritratto. Sappiamo con certezza, grazie a testimonianze giunte sino a noi, che tale genere era praticato già nell’antico Egitto, quando venivano realizzati su tavola o tela dei ritratti per i defunti, che venivano poi inseriti nelle mummie. Come testimoniano le tavole della necropoli del Fayyum, esse erano effigi del defunto che lo avrebbero accompagnato nell’Aldilà.
Sappiamo molto poco di ciò che avvenne nell’arte greca, al contrario invece abbiamo molte informazioni sul genere ritrattistico in età romana. Come afferma Plinio il Vecchio nella sua celebre “Naturalis Historia” (I sec. d.C) il ritratto aveva a quei tempi delle precise funzioni: commemorativa, celebrativa e didattica. Uno dei topos ripresi spesso da Plinio è sicuramente il più ricorrente negli scritti successivi, tanto degli autori romani che rinascimentali, ed è quello dell’immagine talmente reale da mancargli soltanto la parola.
Ma la riscoperta dell’arte antica era avvenuta già molto prima della traduzione del testo pliniano, avvenuta nella Firenze più colta di tutti i tempi, quella dell’Umanesimo e del Rinascimento. Infatti già alla corte di Federico II venivano realizzati ritratti all’antica dell’imperatore e, in casi abbastanza rari, dei suoi più fedeli collaboratori, che prendevano spunto soprattutto dagli esemplari di età imperiale.
Nel Trecento si diffondono invece i ritratti dei capitani di ventura ed uno degli esempi più belli è quello di Simone Martini con il suo celebre “Guidoriccio da Fogliano trionfante dopo la battaglia di Montemassi”, dipinto negli anni trenta nella Sala Maggiore del Palazzo Pubblico di Siena.
Soltanto nel Quattrocento e nel Cinquecento i ritratti cominciano ad essere realizzati secondo una concezione più vicina a quella moderna. Si tratta di opere che mirano a rappresentare non solo uno status sociale, ma anche la psicologia del soggetto raffigurato, si pensi ad esempio ai magnifici ritratti di Antonello da Messina e, ovviamente, a quelli di Leonardo da Vinci.
Le più famose testimonianze di questi secoli sono indubbiamente i ritratti papali, ed uno dei più celebri è conservato al Museo di Capodimonte di Napoli: è il “Ritratto di Paolo III con i nipoti Alessandro e Ottavio Farnese” di Tiziano, emblema del fenomeno del nepotismo e della corruzione della corte papale nel XVI secolo. C’è da dire però che a una consapevolezza artistica da parte dei pittori rinascimentali, non corrisponde un pieno riconoscimento del ritratto come genere pittorico di livello superiore, riconoscimento che avverrà solo nel XVII secolo con il ritratto barocco.
Nel Seicento infatti il ritratto perde la sua funzione “pliniana”, di memoria o presenza del personaggio raffigurato, e abbraccia nuove finalità. Ma qual è l’elemento che differenzia i ritratti di questo secolo da quelli ad essi precedenti?
Semplicemente la natura, la volontà di rappresentare non più qualcosa di fittizio, ma di vero. Opere come quelle di Simon Vouet o Frans Hals mostrano a pieno la rivoluzione: la posizione della testa leggermente ruotata rispetto al resto del corpo e la bocca semiaperta servono a suggerire l’idea del movimento e soprattutto mirano a un coinvolgimento dello spettatore. Mentre Vouet e Hals dipingono giovani gentiluomini sconosciuti, Diego Velázquez applica i nuovi principi barocchi anche al “Ritratto di Innocenzo X”, forse il più celebre dipinto papale di tutti i tempi.
L’artista unisce al precedente raffaellesco e tizianesco, il dato naturale: il pontefice non è rappresentato in un momento qualunque, egli ha infatti ancora in mano la lettera di presentazione dell’artista che ora scruta freddamente nell’attesa di farsi ritrarre da lui. Chi guarda l’opera quindi non si trova più nella posizione di uno spettatore qualunque, ma in quella dell’artista stesso: nella posizione privilegiata per eccellenza che lo fa sentire parte di quella storia. Tutto questo deriva principalmente da una nuova libertà, “licenza”, che viene conferita all’artista, non solo nelle modalità di realizzazione di un’opera, ma anche nella scelta del soggetto.
Ed è così che Gian Lorenzo Bernini non si porrà alcun limite nel ritrarre (questa volta parliamo però di un ritratto scultoreo) Costanza Bonarelli, nata Piccolomini e moglie di Matteo Bonarelli, collaboratore dell’artista all’interno del cantiere della Basilica vaticana, e soprattutto sua amante. Costanza viene rappresentata con i capelli scarmigliati e la camicia aperta sul seno, in un attimo di vita quotidiana, di realtà, quella realtà fatta di incontri fugaci con il grande Bernini.
Alla metà del XVII secolo risale anche la nascita di un nuovo tipo di ritratto, quello di gruppo. Si diffonde principalmente in Olanda, dove spesso i collegi professionali commissionavano un ritratto di gruppo che celebrasse la dignità e il loro prestigio del loro lavoro all’interno della comunità. Uno dei più famosi di questi ritratti è quello dei “Sei sindaci dei drappieri di Amsterdam” di Rembrant. Sia che si tratti del ritratto di una singola figura, o di un ritratto di gruppo, si mira sempre al coinvolgimento dello spettatore e in questo caso ci troviamo nella posizione di chi ha appena spalancato la porta ed ha probabilmente interrotto una accesa discussione.
La bellezza del ritratto barocco è essenzialmente proprio questa, il non essere semplicemente uno spettatore, un amante dell’arte che si limita ad osservare dettagli: lo spettatore è parte dell’opera che senza la sua presenza non avrebbe modo di esistere.
Manuela Altruda