Il teatro è da sempre considerato il mezzo migliore per edificare un carattere, per esprimere le segrete pulsioni e i rigetti dell’anima umana. Allo stesso tempo, lo slancio poetico viene relegato ad una dimensione individuale, una sorta di analisi singola, cui si appoggia il riflesso del mondo. Ma quando in un solo corpo vive e cresce il genio dell’intuizione, allora, bisogna dire che il drammaturgo diviene poeta e il poeta drammaturgo. Quale caso può meglio spiegare questa assonanza che quello di William Shakespeare, autore dei celebri Sonnets?
Sonnets: luce e ombra di una doppia passione
William Shakespeare è forse una delle figure più emblematiche della letteratura universale. La sua gloria va sbattendo le ali persino in Oriente. Al pari delle altre tre colonne del pensiero (Omero, Dante e Goethe), la persona di Shakespeare splende nel buio di un mistero. Al di là delle speculazioni intellettuali sulla sua identità, gli stessi Sonnets vengono tutt’oggi messi in discussione.
Sono centottantadue i componimenti raccolti dal primo editore Thomas Thorpe. Come nel caso di Torquato Tasso e della sua Gerusalemme, anche i Sonnets vennero diffusi senza l’autorizzazione dell’autore. Di conseguenza, la loro disposizione è di dubbia autenticità. Con o senza l’intervento di Shakespeare, i sonetti possono essere divisi in due nuclei principali: un primo nucleo di centoventisei poesie dedicate a tale giovane W.H, conosciuto come il fair friend; un secondo nucleo di ventotto lavori in cui sale alla ribalta la dark lady.
Il dibattito sulle rispettive identità del Sole e della Notte – giacché questo scontro di luce e ombra appare quanto mai chiaro – si fece agguerrito già dal secolo XVIII, coinvolgendo artisti del calibro di Keats, Byron, Shelley, Wordsworth. Arriveranno persino congetture dall’irlandese Oscar Wilde, congetture oltremodo decadenti, tali da ottenere il consenso di André Gide.
Amore e Finzione
Per quanto possa essere aspro e labirintico il lavoro d’interpretazione dei Sonnets, la loro grandezza non va attribuita al mistero. Quello che Shakespeare opera nella poesia non è certo lontano dal taglio teatrale delle opere maggiori. Torna, in ogni componimento, il caratteristico piglio di analisi, ora dell’uomo; ora del tempo; ora della finzione; ora della morte e della vita.
Mi s’è fatto pittore l’occhio, e in cuore
la tua bellezza ha colto e messo in quadro:
cornice è il corpo mio che la contorna
(…)
Ma una maestria l’occhio non ha: la forma
ritrae soltanto, non conosce il cuore.
Il ventiquattresimo sonetto, Mine eye hath played the painter and hath stelled, sembra quasi essere tratto da un monologo alla maniera di The Tempest. Torna il motivo dell’arte e della sua finitudine. Questa volta, con grande originalità, il tema viene trasportato nel cuore del sentimento amoroso. E qui si trova il genio di Shakespeare: portare alla riflessione su diversi ambiti, l’amore e la finzione, con un taglio da maestro. Sulle prime, siamo basiti dalla chiusa, tanto dolce quanto epigrammatica; solo successivamente, comincia a farsi strada la cruda domanda: dunque, l’arte ha un limite?
Il canto del Sole e della Notte
Il sonetto di cui sopra appartiene forse a quei pochi che paiono presi di lontano. Armonico, universale, lo si può strappare dal nucleo senza recidere l’ordine. Discorso diverso, invece, per i sonetti più chiaramente amorosi. Vengono spesso usati d’esempio i due paralleli Shall I compare thee to a summer’s day e My mistress’ eyes are nothing like the sun.
Ma tua estate eterna non tramonterà,
né resterai privo di quella bellezza che possiedi,
né la morte si vanterà di farti vagare nella sua tenebra,
poiché tu, dimorando in versi eterni, maturi nel tempo.
Shall I compare thee, dedicata al fair friend, si veste di luce e di calore, luce e calore giostrati con amabile grazia. Le metafore sono quasi bisbigliate, il contenuto rientra nella tradizione poetica del secolo passato. Non una nota discordante, ogni cosa balugina e spicca in Maggio.
Ho visto rose damascate, rosse e bianche,
ma non vedo rose simili sulle sue guance;
e in alcuni profumi c’è più dolcezza
che nel respiro della mia amante.
Amo sentirla parlare, eppure so bene
che la musica ha un suono molto più piacevole;
My Mistress Eyes va riconosciuta come il miglior esperimento dello Shakespeare poeta. Il componimento presenta un vero stacco linguistico, come a ricordare la nuova presenza della dark lady. Notiamo espedienti dall’incedere aspro, non ancora oscuro, ma comunque di incredibile audacia. Il tono quasi irrisorio esplica la passione amorosa e lo fa con il suo opposto, una maniera quasi grottesca.
Ancora, Shakespeare si sposta dal piano idilliaco al piano materiale, corporeo. Il Bardo di Avon spazia senza requie nei diversi frammenti di un’anima sola: il gentile innamorato, la tigre che balza sul foglio.
Silvia Tortiglione
Fonti:
Shakespeare; Sonetti_ Newton Compton, 2008 | Cura e traduzione di Rina Sara Virgillito