Edmund Burke, filosofo e politico angloirlandese del ‘700, aprì le porte ad una fiorente e duratura indagine su un sentimento estetico fino ad allora tenuto in scarsa considerazione, ma che si sarebbe ben presto (in Inghilterra alcuni poeti già preannunciavano tendenze tipicamente romantiche) affermato con prepotenza nell’immaginario artistico e letterario collettivo: il sublime.
Sono convinto che le idee legate alla sofferenza siano molto più potenti di quelle che implicano il piacere [1]
Storicamente parlando, tali riflessioni si inseriscono in un contesto particolarmente importante per lo sviluppo di una branca della filosofia, l’estetica: proprio nel XVIII secolo, infatti, si comincia a guardare ad essa come forma conoscitiva autonoma, giudicando cioè la percezione sensibile (in relazione all’idea del Bello) come degna sorella della Logica (Baumgarten).
Tale passo avanti nella concezione dell’estetica avrà, nel corso del secolo successivo, interessanti conseguenze sulla concezione di arte, che si slegherà sempre di più dalla necessità di veicolare un valore morale, fino a diventare – nell’estetismo del secondo Ottocento – Art for Art’s sake (arte per l’amore dell’arte).
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Sublime: cos’è?
Chiariamo innanzitutto una cosa: “sublime” è una di quelle parole dall’etimologia ambigua, che può indicare un concetto e anche il suo opposto: le fonti più accreditate indicano “sub-limen“, altissimo (sotto l’architrave della porta) come origine corretta, ma risulta interessante riferirsi anche a “sub-limo“, sotto il fango, ossia infimo. Con ciò non si vuole insinuare che il nome possieda in sé il significato del concetto, ma certamente questo indica la problematicità della natura di tale sentimento, legato a doppio filo al piacere e alla paura.
Il Sublime, come anche il Bello, sono sentimenti, su questo i due principali teorici settecenteschi (parliamo del già citato Burke e di Immanuel Kant) concordano:
La sublimità non risiede dunque in nessuna cosa della natura, ma soltanto nel nostro animo (…) [2]
Operando una generalizzazione, possiamo in partenza definire il sublime come sentimento di piacere generato da ciò che inquieta, fa paura o in qualche modo sfugge al controllo della ragione.
Procediamo adesso ad analizzare le idee dei due filosofi.
Burke: l’origine del Bello e del Sublime
Burke è il primo ad avviare una ricerca filosofica sul Sublime, condotta a partire da un approccio conoscitivo empirico applicato allo studio delle passioni. In precedenza, anche nel mondo antico, “sublime” era l‘effetto di orgoglio che un’opera d’arte produce su un animo nobile, dunque aveva a che fare solo con la nostra prima etimologia del termine, quella legata all’altezza (in senso propriamente verticale: nel De Sublime del cosiddetto Pseudo Longino viene descritto il gonfiarsi dell’animo del lettore dinanzi a un testo di Omero o a una tragedia di Sofocle, sentimento in cui pare di poter comprendere, abbracciare l’universo intero).
È Burke, dunque, ad attribuire al Sublime (in contrapposizione al Bello) una connotazione diversa, moderna:
il terrore è, in qualsiasi caso, apertamente o in modo latente, il principio regolatore del sublime. [3]
Terrore, non pericolo: la sensazione di meraviglia che precede l’attivarsi della ragione, ed è accompagnata da ammirazione, riverenza e rispetto. Tale miscuglio di sensazioni entra in gioco quando contempliamo uno scenario potenzialmente pericoloso da lontano, quando siamo, insomma, al sicuro da esso: secondo Burke, idea ripresa poi da Kant, il sublime implica una distanza nei confronti di ciò che scatena il sentimento.
Cosa distingue il Sublime dal Bello? Per chiarire questo punto, Burke cita un passo del Paradiso Perduto, il grandioso poema di Milton:
The other shape,
if shape it might be called that shape had none
distinguishable, in member, joint, or limb […] [4]
Il Sublime ha origine da ciò che è informe, smisurato, oscuro; il Bello, invece, è piacere verso ciò che è luminoso, delicato, armonioso.
Kant: piccolezza e grandezza dell’uomo
Immanuel Kant postula l’esistenza di due forme di sublime, caratterizzate non solo dalla dialettica dispiacere-piacere già introdotta da Burke, ma che implicano anche un ulteriore rovesciamento dell’impotenza in potenza.
Il Sublime matematico nasce nei confronti di qualcosa che sia smisuratamente grande, come la contemplazione di una catena montuosa, un ghiacciaio o la volta celeste: il sentimento è legato alla piccolezza dell’uomo nei confronti della Natura.
Il Sublime dinamico, invece, non riguarda direttamente una sproporzione fisica, ma un senso di impotenza e inadeguatezza verso la strapotenza, paurosa, minacciosa, delle forze naturali (nuvole temporalesche, uragani devastanti).
A questo punto però Kant compie un’interessante operazione di rovesciamento: l’umanità della nostra persona non soccombe alla potenza della natura ma, al contrario, si erge orgogliosamente a contemplarla, conscia della propria grandezza morale, dell’invincibilità dell’animo umano di fronte al pericolo.
Il nostro giudizio estetico non attribuisce il sublime alla natura in quanto paurosa, ma perché desta quella forza che è in noi a considerare come insignificanti le cose di cui ci preoccupiamo, e perciò a non vedere nella potenza della natura un impero a cui doverci piegare. [5]
Il sublime nell’arte romantica
La potenza espressiva ed evocativa di tali concezioni influenzò variamente l’arte dell’epoca. Proprio in virtù di quella distanza teorizzata da Burke e ripresa da Kant, alcuni celeberrimi pittori di epoca romantica (Turner su tutti) fecero proprie le concezioni estetiche riguardanti il sublime e tentarono di suscitarlo attraverso i propri quadri.
Con nessuna pretesa di esaustività possiamo limitarci ad affermare che il misto di sentimenti contrastanti che ancora evocano tali dipinti conferma la potenza del sentimento analizzato da Burke e Kant.
Maria Fiorella Suozzo
Fonti
Itinerari di filosofia, dall’Illuminismo a Hegel, Abbagnano e Fornero
[1], [3] A philosophical inquiry into the origin of our ideas of the Sublime and Beautiful, Edmund Burke (1756) [trad. mia]
[2], [5] Critica del giudizio, Kant (1790)
[4] L’altra forma invece – se è possibile chiamare forma ciò che alcuna forma lascia distinguere in membra, arti o giunture […]