Traduzione o tradimento? Tradurre un testo e cioè il prodotto di un determinato contesto storico e culturale in un’altra lingua e quindi in un orizzonte di senso e di riferimento diverso, è un’operazione sempre problematica. Se questa difficoltà è percepibile in lavori di traduzione di opere moderne, essa diventa ancor più aspra nel tentativo di rendere accessibile ai lettori odierni una produzione letteraria antica.
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Tradurre o tradire?
Nasce così il detto secondo il quale una traduzione è in fondo sempre un tradimento del testo in lingua madre. Le espressioni di una lingua, tanto più se sono idiomatiche, risultano spesso incomprensibili in un’altra se tradotte letteralmente. Per questo diventa necessario ai fini della traduzione cercare un’altra espressione che possa equivalere il più adeguatamente possibile a quella di partenza. Ecco un celebre esempio fra la lingua inglese ed italiana correnti. Il detto inglese “it’s raining cats and dogs” significa letteralmente “stanno piovendo cani e gatti”: l’espressione è totalmente priva di senso in italiano e il suo significato indeducibile. La traduzione di questo idioma avviene perciò tramite un corrispondente significato idiomatico “sta piovendo a catinelle”: la metafora inglese viene abbandonata ma l’espressione è ora perfettamente comprensibile.
Questa traduzione è stata dunque un tradimento della lingua madre? Andando oltre il gioco di parole tra-durre = tra-dire, possiamo notare che è stata semplicemente un’operazione necessaria. Una traduzione implica questi adattamenti: voler dire che è stata un tradimento significa attaccarsi idealisticamente ad un’idea utopica di traduzione priva di fondamento reale. Una traduzione non è una traslitterazione: sottolineare che solamente una lettura del testo fatta in lingua madre lascerebbe trasparire sfumature di significati non adeguatamente traducibili, sarebbe dire una mera ovvietà.
La responsabilità del tradurre
Possedere bene una lingua a tal punto da poter fruire della sua produzione letteraria è qualcosa di raro. Oltre le suadenti dinamiche di marketing sempre pronte a pubblicizzare il corso risolutivo che in modo breve ed indolore porterebbe all’acquisizione della tanto agognata lingua, la realtà è ben diversa. Una tale capacità è rintracciabile solo in specialisti del settore, anzi: essi possono solo faticosamente ottenere una buona conoscenza di altre pochissime lingue oltre alla propria. Se poi prendiamo in considerazione la letteratura antica, lontana secoli o millenni dal contesto del traduttore, le asperità si radicalizzano.
Un testo antico non è indulgente e non si piega alla preparazione spicciola di fantomatici poliglotti capaci di chiedere informazioni per un hotel o di tradurre “the cat is on the table” in decine di lingue. Tramontata l’era rinascimentale e i suoi geni enciclopedici, non possiamo che riconoscere la grandissima importanza della traduzione e la notevole responsabilità connessa ad essa. Occuparsi di cultura significa, se ben compresa, occuparsi di attività educativa. Impegnarsi per riuscire a trasmettere dei contenuti a coloro che avendo sviluppato un’altra competenza non potrebbero accedervi autonomamente. La responsabilità del traduttore aumenta vertiginosamente se la traduzione in questione riguarda le Sacre Scritture: queste per i credenti non sono solo mera letteratura per appassionati di filologia. La fede crede che l’autore divino abbia guidato quello umano e in esso si sia espresso. Questi testi, per i più, non hanno in primo luogo una valenza letteraria: essi nutrono la preghiera dischiudendo un orizzonte di senso. In essi Dio si comunica e attraverso di essi diventa possibile ascoltarlo.
Quale traduzione? La scelta
La traduzione della Parola di Dio richiede perciò grande competenza e rende ancora più ardua la sfida di ogni traduttore: la scelta. Tradurre significa in fondo scegliere un’espressione corrispondente, adottare una possibilità e scartare tutte le altre. In ambito esegetico, nel tentativo della traduzione delle Scritture, la scelta si carica di una plusvalenza sconosciuta ad altre traduzioni. La grammatica e le espressioni del testo ebraico/aramaico dell’antico testamento o del greco del nuovo, veicolano una teologia; la scelta di determinate parole trasmette ai lettori, o meglio agli oranti, una determinata immagine di Dio in luogo di altre. Singole espressioni, spesso estrapolate nella proclamazione liturgica, implicano una conoscenza biblica e teologica notevole: diventa grande, così, il rischio di fraintendimenti.
Un esempio interessante di scelte da dover operare in ambito esegetico e delle loro conseguenze, può essere tratto da testi così celebri da essere stati assunti a paradigma della preghiera cristiana.
Ave o Maria e Padre Nostro: una celebre traduzione
Prendiamo in considerazione le ultime due traduzioni ufficiali della Bibbia promulgate dai vescovi italiani: la CEI 1974 e l’attuale CEI 2008. Notiamo subito uno scollamento tra la tradizione popolare e il testo di Luca 1, 28: non c’è traccia del celebre “Ave o Maria”.
Già la traduzione CEI 1974 aveva cercato di superare il secolare dominio della versione latina “Ave” con un “Ti saluto”. L’Ave rischiava di evocare una romanità del tutto estranea, addirittura quasi ironica in quel contesto. Un dialogo tra una giovane israelita e il messaggero di Dio che venendo per annunciare la salvezza futura si esprime nell’idioma dei tanti odiati oppressori romani.
La CEI 2008 opta invece per la traduzione del greco χαῖρε con “Rallegrati” sostituendo “Ti saluto”. Questa scelta non è esente da dubbi: infatti, può essere criticata di eccessivo letteralismo. Il termine greco significa sia il semplice saluto al momento dell’incontro, sia l’invito a gioire. In italiano, un semplice “Salve” o “Ti saluto” sarebbe anche potuto bastare visto che dal testo emerge che l’intenzione principale dell’angelo era quella di salutare la sua interlocutrice, iniziando a parlarle piuttosto che invitarla a rallegrarsi. La scelta attuale invece, è caduta sull’invito alla gioia vista la novità inaudita che l’angelo le avrebbe annunciato.
Questo esempio mostra chiaramente la necessità di una scelta e l’alternativa di rendere in traduzione l’una o l’altra sfumatura.
Un altro esempio ancor più interessante e denso di implicazioni teologiche è la traduzione del Padre Nostro. La CEI 1974 rendeva εἰσφέρω di Matteo 6, 13 come “non ci indurre (in tentazione)” mentre la CEI 2008 ha cambiato il testo in “non abbandonarci (alla tentazione)”. Il verbo greco significa far entrare, condurre, quindi indurre in tentazione sarebbe stata una scelta valida da un punto di vista grammaticale. Ma un’opzione del genere rimane comunque problematica: l’idea di un Dio che fa entrare nella tentazione richiama il motivo biblico pedagogico-sapienziale della prova o della correzione. Queste correnti teologiche possono anche essere interpretate come il tentativo di evitare ad ogni costo una minaccia al credo monoteista, arrivando persino ad ascrivere a Dio lo stesso male. Il Nuovo Testamento nella Lettera di Giacomo 1, 13-14 è esplicito a riguardo:
Nessuno, quando è tentato, dica: «Sono tentato da Dio»; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno. Ciascuno piuttosto è tentato dalle proprie passioni, che lo attraggono e lo seducono.
Così voler tradurre “non ci indurre in tentazione” senza però poter spiegare il senso di una tale affermazione comporta un’ambiguità notevole. La scelta di trasformare “non ci indurre” in “non ci abbandonare” tradisce il testo solo apparentemente. Seppure la traduzione della CEI 1974 può tuttora rivendicare buone ragioni, si può ben argomentare la scelta della CEI 2008: l’immagine di Dio come Padre che non abbandona e quindi sostiene nella tentazione, è molto più conforme al messaggio biblico rispetto alla precedente versione. Parafrasando il detto tradurre=tradire si può invece affermare che a volte è proprio una traduzione letterale, che diventa perciò letteralistica, a tradire il testo. Infatti, una traduzione che fosse fedele ad un singolo termine, ma che ne tradirebbe l’orizzonte di senso globale che lo contiene, risulta molto più problematica di una che, forzando un singolo termine, riesca però ad essere fedele all’insieme.
Christian Sabbatini
Fonti
Strumenti
Bibbia CEI 1974
Bibbia CEI 2008
C. Rusconi, Vocabolario del greco del nuovo testamento, EDB 20133 Bologna
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