La giovinezza senza la bellezza ha pur sempre del fascino; la bellezza senza la giovinezza non ne ha alcuno.
È dunque questo quanto pensava Arthur Schopenhauer: la giovinezza può non aver bellezza ma la bellezza senza giovinezza non è affascinante.
Ma la bellezza è già una prerogativa insita nella gioventù e per essere davvero giovane bisognerà essere Giovane e bella.
Come Isabelle, protagonista del film presentato nel 2013 al Festival di Toronto e candidato al Festival di Cannes nello stesso anno.
Giovane e bella è un film nato dalla creatività di François Ozon, regista e sceneggiatore francese che ha deciso, con il titolo del suo film, di omaggiare Jeune et Jolie, il più famoso magazine francese per ragazzine degli anni ’80 e di raccontare la particolare realtà degli adolescenti che in questo breve ma intenso periodo della loro vita si trovano sospesi a camminare su di un filo molto sottile, tra gli eccessi ai quali, spesso, scelgono inconsciamente di cedere.
Giovane e bella: la gioventù di Isabelle
Isabelle, interpretata da Marine Vacth modella e attrice francese, è una studentessa diciassettenne, giovane e bella, graziosa e con un sorriso dolcissimo che vive con sua madre, suo fratello ed il patrigno.
La sua vita sembra essere, sommariamente, quella di ogni giovane donna che districa la propria giornata tra scuola, compiti e tempo libero.
Solo che Isabelle, come molte e a differenza di molte, decide, nel suo tempo libero, di essere Léa; di trasformarsi in una giovane studentessa appena ventenne per vendere il proprio corpo al miglior offerente per regalare momenti di retribuito piacere spesso divorato con cruda bestialità dai suoi clienti che stringono e toccano quel corpo come fosse carne senza anima.
Giovane e bella è il racconto di una storia come tante che, nonostante tutto, continua a sconvolgere gli spettatori ai quali non manca il raffronto con la realtà che spesso è anche più bestiale e feroce di quella raccontata nella pellicola.
Léa non è altro che una prostituta, una baby squillo, tremendo e degradante soprannome affibbiato alle ragazzine che qualche anno fa in Italia sono state coinvolte in una storia di scandali e disgustosi silenzi, figli di curiosi e sapienti sguardi.
A differenza di molte, però, la giovane e bella protagonista del film non si prostituisce per necessità o per obbligo, non si prostituisce per una borsa o per una ricarica telefonica.
Léa vende il suo corpo per 300 euro, vende la sua carne per volere: “Mentre ero lì non sentivo quasi niente, ma quando ci ripensavo a casa o a scuola avevo voglia di rifarlo”.
È così che commenterà la giovane durante il colloquio con un assistente sociale, dopo la dura scoperta della sua attività.
Léa è una bocca di rosa francese che per noia, insicurezza o lussuria decide di diventare, o semplicemente essere, nel senso più profondo del termine, una prostituta di alto bordo, che fugge da un hotel all’altro, da una macchina di lusso all’altra trasformandosi, da Isabelle a Léa, da Léa ad Isabelle.
Le sue scelte sembrano essere proprio frutto di una realtà adolescenziale sempre più diffusa, divorata dal nichilismo che affoga nella noia della solitudine e muore alla morte dell’eterno amore giurato dai genitori, alla nascita dei loro rancori e dei loro nuovi, plurimi e adulterini amori.
L’interpretazione della protagonista è buona: si spera che l’inespressività del volto e delle parole sia frutto di un finissimo e tattico metodo interpretativo che si appresta a rispondere ai nichilistici modi di fare di Isabelle.
La sceneggiatura è la parte meno forte della pellicola che vive preminentemente grazie alle forti immagini ed a tal proposito è giudicata buona la fotografia.
Particolare e suggestiva, invece, è la suddivisione del film in quattro capitoli che altro non sono che le quattro stagioni dell’anno, ognuna delle quali è celebrata da una canzone di Françoise Hardy.
Lussuria, piacere, noia o profonda superficialità, cosa ha spinto veramente Isabelle a diventare Léa?
“Ai posteri l’ardua sentenza“, buona visione.
Corinne Cocca