L’immagine della Napoli secentesca «è una composizione a più mani», nella quale il mito dell’Antico brilla di luce propria. Nei diari dei viaggiatori che visitano la Napoli del Seicento si riscontrano testimonianze di riti e feste religiose che hanno un retrogusto pagano. Ritrovamenti, iscrizioni, pietre esposte perennemente alla luce del sole, chiese costruite su fondamenta di templi pagani, ci raccontano una città che custodisce nelle proprie viscere leggende e storie, che fanno da ponte tra antichità e presente.
In questo clima misterioso, la figura femminile, nonostante le difficoltà, riuscì a trovare, il suo posto nel mondo, seppur in maniera discutibile. La condizione femminile nel Seicento, infatti, appariva piuttosto difficile: l’immagine della donna colta ed emancipata era considerata inutile e dannosa. La sessualità era concepita esclusivamente nella capacità della donna di concepire. L’educazione delle donne era riservata alla loro utilità come buoni mogli e madri, ed erano istruite nella religione.
A Napoli la forte presenza delle donne in campo religioso è testimoniata, sul finire del Seicento, dalla presenza di circa una quarantina di monasteri femminili. Le mura dei conventi erano sempre più alte e molte storie di pratiche orgiastiche circolavano in quel periodo. Storie famose tanto che Boccaccio ritrasse una badessa un po’ “fuori dalle righe” nella novella di Masetto da Lamporecchio.
Vicende di monache lussuriose e mistiche, che praticavano riti pagani e misterici; tra queste fece particolare scalpore quella di Suor Giulia de Marco.
Giulia de Marco: la Madre del popolo
Giulia de Marco nasce nel 1575 a Sepino da una famiglia di braccianti. Dopo la morte del padre, viene affidata ad un mercante, presso il quale vi resterà fino alla sua morte. Trasferitasi nella Napoli vicereale, Giulia si innamora di uno staffiere, del quale resta incinta. Il giovane la abbandona e Giulia, in preda alla disperazione, espone il neonato alla Ruota dell’Annunziata.
Fu probabilmente questo episodio ad avvicinare Giulia alla vita spirituale, alla quale si dedicò con tanto ardore da attirare l’ammirazione non solo del popolo, ma anche del padre spirituale. La santità di Giulia, della cosiddetta “monaca di casa”, cominciò a circolare ben presto e le famiglie benestanti facevano a gara per ospitarla, in quanto vigeva la credenza secondo la quale attraverso tale gesto le famiglie acquisivano meriti presso Dio.
La vita casta e pura di Giulia ebbe una svolta radicale quando conobbe padre Aniello Arciero. Fu l’esordio di una delle vicende più scandalose dell’epoca, che ebbe eco in tutta Europa. Tra Giulia e Don Aniello nacque un’intesa che oscillava tra la spiritualità e l’eros, un rapporto iniziatico che si basava sulla celebrazione del corpo come mezzo attraverso il quale restituire la purezza. Giulia, con il timore dell’Inquisizione, raccontava di essere in preda a visioni mistiche, attraverso le quali era in grado di leggere i segreti più reconditi degli uomini. In realtà, questi misteri erano le confessioni dei fedeli che si rivolgevano a Don Aniello, il quale, per convincere le masse dei principi della nuova dottrina, le raccontava a Giulia.
Suor Giulia fu chiamata Madre dal popolino e venerata dalla nobiltà napoletana. I principi di tale dottrina sessuale diedero vita ad una vera e propria setta, di cui facevano parte i personaggi più illustri della Corte spagnola. Nemmeno il sospetto dell’Inquisizione pose fine alla glorificazione di Suor Giulia. Tuttavia, la vicenda raggiunse l’epilogo nel 1615: Suor Giulia la santa fu costretta a confessare la falsità delle sue visioni e di aver agito per puro piacere carnale.
Sacerdotessa di Afrodite
Le pratiche che i “fedeli” svolgevano presso la Madre riguardavano una vera e propria adorazione del corpo e delle parti intime della donna, considerate le porte del Paradiso. Alcune testimonianze riferiscono riunioni di dieci donne e dieci uomini che, a lume spento, si accoppiavano tra di loro. L’orgasmo era la manifestazione dell’estasi divina. Sulla verità di Suor Giulia de Marco sembra ci siano non troppe certezze.
Tuttavia, nulla ci impedisce di creare un parallelismo, seppur anacronistico e privo di fondamento, con le pratiche connesse al culto di Afrodite, dea della bellezza, dell’amore ideale, ma anche divinità della riproduzione e dei piaceri dell’amore. La prostituzione sacra era una pratica molto diffusa soprattutto in Oriente: le fanciulle si sacrificavano alla dea attraverso l’atto sessuale. In Grecia le ierodule erano donne che si dedicavano al tempio, delle vere e proprie sacerdotesse che partecipavano alle cerimonie con musica e danza, prostituendosi. A Corinto si trovavano più di mille ierodule presso il tempio di Afrodite Urania. L’importanza dell’aspetto sessuale si riscontra nelle simbologie legate alla divinità: la figura della dea viene spesso rappresentata accompagnata dal fiore di mirto e di mela, e da animali che richiamano l’amore, quali il capro o la colomba.
Dunque, Giulia, “perdonando” lo scandalo morale della vicenda che la vede protagonista, potrebbe rappresentare il residuo di un culto pagano ancora attivo nella Napoli del Seicento. D’altronde, non tutti gli antichi culti e riti pagani sono riusciti a trasformarsi in pratiche cristiane. L’aspetto delle origini di una città pagana resta sopito anche sotto il velo di una ostentata grazia religiosa. E comunque, Suor Giulia è raffigurata su alcune edicole votive a Forcella. Per non dimenticare…
Giovannina Molaro
Bibliografia:
A.Palumbo – B.Ponticello, Misteri, segreti e storie insolite di Napoli, Newton Compton Editori, 2015
M. Rak, L’immagine di Napoli nel Seicento europeo, in Napoli è tutto il mondo, Fabrizio Serra Editore, 2008
G. Galasso, L’altra Europa. Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, Alfredo Guida Editore, 2009
Sitografia:
http://donneprotagoniste.blogspot.it/2014/03/suor-giulia-di-marco.html