I medical shows o, se vogliamo, le serie tv mediche, hanno la fondamentale qualità di… inquietare (l’essere umano occidentale moderno ha paura relativamente di poche cose, e morire di una malattia fulminea e dolorosa è fra quelle), intrigare, coinvolgere, eventualmente far innamorare di un eroe (basta spade e draghi: il principe azzurro ha un bisturi in mano).
Ora, aggiungiamo ai medical shows il fascino della moda d’epoca, degli strumenti obsoleti e della quantità di batteri che brindavano all’ignoranza medica di cento anni fa…
Appunti di un giovane medico
Michail Bulgakov, seppur noto come scrittore, ebbe formazione da medico, con le conseguenti classiche prime esperienze, disastrose e grottesche, esilaranti, forse, o magari disperanti. È il 1917. Il giovane medico (Daniel Radcliffe) è spedito in Siberia con le sue innocenti e colorate nozioni libresche, fresco fresco di laurea e assolutamente terrorizzato dalla responsabilità di essere l’unico dottore nel raggio di chilometri, nella desolazione gelida di territori spogli e poco accoglienti.
I soli quattro episodi della prima stagione, l’unica per ora arrivata in Italia, hanno però qualcosa di ancora più prezioso della già deliziosa atmosfera che si verrebbe a creare con quanto appena riportato.
Il fatto è che al giovane Bulgakov la situazione sembra già abbastanza drammatica, e non ha la minima idea di ciò che l’Unione Sovietica gli farà passare, di quanto dovrà penare per vedersi riconosciuto come autore e di come trascinerà la propria esistenza tra il timore di scatenare la collera dell’autorità e l’indole ironica e sovversiva, innata e insopprimibile, che ne caratterizzava l’estro.
Il giovane Bulgakov non ne ha idea, ma lo sa perfettamente la sua versione più vecchia e stanca (Jon Hamm). Rimpianto, indulgenza, impazienza, tenerezza: tutto si mescola nell’occhio dello scrittore che ha visto di più e di peggio di quello che avrebbe voluto.
Ripper Street
L’epoca è quella di Jack lo Squartatore, la zona anche: Whitechapel, Londra, 1889. Non siamo in un ospedale, ma nel distretto di polizia della divisione H, pochi mesi l’assassinio dell’ultima prostituta da parte del serial killer mai catturato.
L’ispettore Edmund Reid (Matthew Macfadyen) e il sergente Bennet Drake (Jerome Flynn) sono colpevoli di non aver identificato lo Squartatore, ed è una macchia che non andrà via, ma che anzi piegherà il corso degli eventi e il loro modo di affrontarlo, violento e ritmato da metodi dubbi per l’eticità odierna.
A completare il trio c’è un proto-medico legale, un maestro nel suo campo eppure qualcosa di simile ad un macellaio, lontanissimo dall’immagine bianca e asettica che potremmo avere di un chirurgo: Homer Jackson (Adam Rothenberg).
La Londra di fine Ottocento è sudicia, corrotta e buia, piena di vicoli misteriosi e di rumori raccapriccianti, di un fascino sottile e da brivido. Difficile viverci: è una giungla dove venire sgozzati all’angolo di una stradina è altrettanto probabile che morire contagiati dal morso di un topo o dal bacio di una prostituta.
Ciò che arriva nella sala operatoria del rude Jackson è così realistico che non stupirebbe se fosse accaduto davvero, così vivido che qualcuno potrebbe riprodurre a memoria le macchie di sangue a fine episodio.
Medicina rudimentale e un chirurgo a cui non affidereste un’unghia incarnita ma che a tutti gli effetti è tra i più talentuosi in circolazione, un quartiere in cui si sa quando si entra ma non se mai se ne uscirà, un tenente le cui nocche sanguinano a ogni interrogatorio, un ispettore le cui memorie sul fallimento delle indagini su Jack lo Squartatore realmente esistono: da guardare.
The Knick
Nel 1900 si operava senza guanti, la sala operatoria si chiamava “teatro” (“circus”) perché gli interventi erano aperti al pubblico specializzato, e non solo, le radiografie erano l’ultima, fantascientifica, novità che i medici lottavano per poter usare nel proprio ospedale. Opinioni discordanti sui diritti dei neri rendevano tutti più aggressivi, l’innovazione e le scoperte in campo scientifico più euforici e impulsivi, i successi e i fallimenti più competitivi, la consapevolezza dell’ignoranza ancora grande eppure vulnerabile più intraprendenti, coraggiosi, sconsiderati, ossessivi.
La cinepresa nelle mani di Soderbergh si muove lungo i corridoi veloce e agitata, barcollando e partecipando all’agitazione di medici, di infermiere, di pazienti infuriati che corrono. Le musiche di Cliff Martinez spezzano l’atmosfera da fotografia d’epoca con suoni decisamente contemporanei che seguono un ritmo estraneo agli aspetti esteriori, sincronizzato piuttosto allo spirito visionario e geniale di John Thackery (Clive Owen), uno dei più grandi chirurghi del suo tempo (ispirato a William Stewart Halsted), cocainomane e supponente, e di Algernon Edwards (André Holland), raffinato e collerico professionista di colore.
Questa serie ribolle dall’interno, annodando tra loro linee difficili e diverse che rappresentano uno scontro tra due secoli, tra una forza che tira verso il vecchio e un’altra che spinge in avanti, tra paura e arroganza. Non è il solito memorandum di carattere enciclopedico che vuole ispirare gratitudine per l’opera degli studiosi passati e consapevolezza di quanto siamo fortunati a vivere questi tempi forniti di antibiotici. È piuttosto la rappresentazione del gusto di conoscere chi ha posto la domanda per alcune risposte che già conosciamo; di godersi ipotesi, atti e dimostrazioni di uomini che, procedendo a tentoni al buio, arrivano a scoprire nozioni basilari dell’oggi; e notare come ogni passo di questo percorso sia più faticoso di quel che sembrava, a volte sporco, amorale, avventato, insensato… a volte brillante, coraggioso, impeccabile, avveniristico.
Chiara Orefice