La religione del mio tempo è una raccolta di poesie di Pier Paolo Pasolini apparsa nel 1961; in essa vi sono poesie scritte tra il 1955 e il 1960. L’opera appare in un momento di piena maturità poetica di Pasolini, successivamente ad altri lavori poetici: Le ceneri di Gramsci, La meglio gioventù e L‘usignolo della chiesa cattolica.
La maturità poetica è nei temi. Se in Le ceneri di Gramsci Pasolini aveva affrontato la questione della storia, i temi dell’ideologia, il ruolo della poesia e soprattutto il suo dissidio interiore tra pensiero borghese e attrazione del mondo proletario (continuando il tema autobiografico dei dissidi interiori già manifesti, seppur in forme diverse, nella raccolta in dialetto friulano La meglio gioventù e accentuato ancora di più in L’usignolo della chiesa cattolica), qui lo sguardo di Pasolini sul mondo si fa più scientifico e distaccato, ma non per questo meno mordace e radicale.
La religione del mio tempo: genesi, temi e struttura
I temi in questione sono forse quelli più tipici di Pasolini: la letteratura, specie il ruolo della poesia, l’ideologia comunista, la diversità dei costumi e dei modi di pensare tra borghesia e proletariato; il ruolo della storia e l’estraneità del popolo alla storia; il rapporto padri-figli e la questione generazionale; il rapporto del poeta con la città di Roma; il nascente neocapitalismo che crea nuovi bisogni ed esigenze di consumo.
Italia-1961 è il dato spazio-temporale da non sottovalutare. Il paese si avvia a vivere la fase più intensa del boom economico: se i grafici statistici della produzione impennano ancora nei comportamenti delle masse popolari (tanto cari a Pasolini), non sono indotti nuovi bisogni e desideri. Ancora la civiltà dei consumi e del benessere non ha determinato quella che Pasolini chiamò nelle opere successive la La religione del mio tempo, “mutazione antropologica”.
D’altro canto la forza antagonista a questo stato di cose, il Partito Comunista Italiano, vive una fase di crescita dei consensi ma di stasi in termini di discorso politico: nel 1956 il XX congresso del PCUS aveva condannato i crimini di Stalin; l’opinione pubblica mondiale ha deprecato l’intervento repressivo dell’URSS in Ungheria; molti intellettuali in questi anni abbandonano il partito, intolleranti ad un togliattismo a tratti troppo rigido (troppo spesso il PCI alternava spinte rivoluzionarie e toni di moderato riformismo). Il risultato finale, come poi sarà confermato dalle linee politiche delle successive segreterie, è stato l’abbandono del “grande sogno” della rivoluzione.
Con acribia Pasolini si accorge di questo crocevia della storia tra la critica serrata al neocapitalismo e la “desistenza rivoluzionaria”.
La religione del mio tempo si articola in tre parti. La prima contiene rispettivamente un poemetto dal titolo La ricchezza; un componimento in distici, A un ragazzo; La religione del mio tempo che da il titolo all’intera raccolta (locuzione tratta da un verso del poeta dialettale ottocentesco Gioacchino Belli) e un’Appendice alla “Religione”: Una luce.
La seconda parte contiene epigrammi scritti da Pasolini negli anni precedenti divisi in due sezioni: Umiliato e offeso e Nuovi epigrammi.
La terza ed ultima sezione comprende invece delle canzoni unite dal titolo Poesie incivili.
Esempio paradigmatico: il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano.
Due esempi paradigmatici sono tratti dalla prima sezione di La religione del mio tempo, La ricchezza. Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano in cui Pasolini osserva con l’occhio dell’antropologo il sottoproletariato romano e tutto il distacco tra sè e quella realtà sociale a lui tanto cara. Entrambi fuori dalla storia, i proletari perché da sempre estranei alla storia e figli di una civiltà contadina e Pasolini perché borghese e quindi portatore di una visione del mondo autoimposta che fa della storia il contorno del suo protagonismo.
Pasolini chiarì questo punto successivamente all’inizio di Lettere luterane ritornando al tema della luce (espresso, tra l’altro, anche nella lirica La resistenza e la sua luce) già trattato nei versi più famosi di Le ceneri di Gramsci.
Li osservo, questi uomini, educati
ad altra vita che la mia: frutti
d’una storia tanto diversa, e ritrovati,
quasi fratelli, qui, nell’ultima forma
storica di Roma. […]
Sono usciti dal ventre delle loro madri
a ritrovarsi in marciapiedi o in prati
preistorici, e iscritti in un’anagrafe
che da ogni storia li vuole ignorati…
Il loro desiderio di ricchezza
è, così, banditesco, aristocratico.
Simile al mio. Ognuno pensa a sè,
a vincere l’angosciosa scommessa,
a dirsi: “é fatta”con un ghigno di re…
La nostra speranza è ugualmente ossessa;
estetizzante, in me, in essi, anarchica.
Al raffinato e al sottroproletario spetta
la stessa ordinazione gerarchica
dei sentimenti: entrambi fuori dalla storia
in un mondo che non ha altri varchi
che verso il sesso e il cuore
altra profondità che nei sensi.
In cui la gioia è gioia, il dolore dolore.
Luca Di Lello