Abbiamo visto in precedenza il caso di Laodamia e Saffo, due delle “eroine” di Ovidio. È giusto riservare uno spazio anche a due altri esempi di rigore e memoria: Enone e Didone, rispettivamente le sfortunate amanti di Paride ed Enea.
Enone e Didone: tra memoria e presente
Entrambi dolenti confondemmo le nostre lacrime. L’olmo non è altrettanto avvinto dai rami di vite che lo allacciano, quanto le tue braccia si strinsero al mio collo.
Si è già detto che a muovere le Eroidi è un grande amalgama di pulsioni – naturali, volontarie, involontarie, rigettate. Adesso, con la giovane Enone siamo nel pieno dei topos antichi, rivive nella sua epistola il gusto delle antiche bucoliche e torna il locous amenous, non una vera oasi naturale, ma una dimensione ricordata, il suo passato di felice giovinetta. Questo gioco fittizio entra in scontro con il nucleo, il momento elegiaco della vicenda: la situazione presente di abbandono.
Qui si muove il talento quasi psicologico di Ovidio, una trama che può essere misurata con un Proust per la valenza esplosiva del dettato e del simbolismo interiore. Enone si lancia nella scrittura in un momento particolare. Non è il cauto dolore di una perdita, bensì un audace correre di speranza. Le sillabe sembrano quasi protrarsi in un combattimento, da un lato la coscienza del rifiuto, dall’altro il corpo che umano si nutre di illusioni.
Didone, la morte sublime
Se Enone viene ricacciata da un passato positivo a un presente arido ma attivo in speranza, eroina del tutto diversa è Didone. La regina Elissa è protagonista di una delle più accorate epistole delle Eroidi. In queste righe non abbiamo la pretesa del ritorno, ogni frase suona alla maniera di un canto funebre. Enone e Didone posso essere viste come le due facce di una medaglia, o meglio, di un cuore. Non a caso, invece di un augurio, apre e chiude la missiva un’immagine di morte:
Così canta il bianco cigno presso gli acquitrini del Meandro, mentre langue sull’umida erba, quando il destino lo chiama.
Enea fornì il motivo della morte e la spada; Didone si tolse la vita con la sua stessa mano.
Addirittura quest’ultimo inciso viene profetizzato come epitaffio al sepolcro. Didone non ha speranza, non evoca un passato gioioso per vivere nello stallo di Enone; Didone è viva, umana quanto mai. Il narrato è chiuso nella sua prospettiva individuale, ricco di esclamazioni, iterazioni, commenti e accuse.
Ciò che avrei preferito dovere a te, lascia che lo debba alle tempeste. Il vento e le onde sono più giusti del tuo cuore.
Nonostante Didone appaia, a una prima lettura, una monarca forte, rigida, degna di onori, a lungo andare è facile accorgersi che il suo discorso non è retto da una fiamma materiale. Sono spettri, ricordi fiochi a dar voce alla regina. La forza è tutta apparenza, un’apparenza ben simulata dall’artificio e conclusa con il gesto sublime del suicidio. In altre parole, la grandezza di Didone – quel suo sembrare una novella amazzone – è tutta nella mente di chi legge e si trova già a conoscenza dell’atto conclusivo. Ecco la spaccatura di Ovidio: da un lato, il sentimento della Didone personaggio, colei che scrive e paventa la morte; dall’altro l’ammirazione di un lettore consapevole, fascinato da un’antica follia d’amore.
Silvia Tortiglione
Fonti:
Ovidio; Eroidi_Garzanti, 2011; Introduzione, traduzione e note a cura di Emanuela Salvadori