William Shakespeare, un nome per tanti capolavori: La tenera storia d’amore di Romeo e Giulietta, la solennità di drammi storici come Giulio Cesare, l’irriverenza di commedie come La bisbetica domata. Opere che hanno avuto un grande successo nell’Inghilterra elisabettiana e che ancora oggi sono riproposte sui palcoscenici di tutto il mondo. Ma non tutti sanno che il debutto del drammaturgo di Stratford-upon-Avon è legato ad una tragedia sanguinosa e violenta, composta tra il 1589 e il 1591. Quella tragedia porta il titolo di Tito Andronico.
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Tito Andronico. La trama
Se i diavoli esistessero,
vorrei essere io uno di quelli,
e vivere e bruciar nel fuoco eterno,
pur di averti a compagno nell’inferno
e starti a tormentare tutto il tempo
con la mia lingua amara!(Aronne)
Il generale romano Tito ha sconfitto in battaglia i Goti e ha portato con sé a Roma la regina Tamora e i suoi tre figli come prigionieri. Per onorare la memoria dei romani caduti in battaglia Tito offre in sacrificio uno di questi, Alarbo, e rinuncia al titolo di imperatore per darlo a Saturnino. Questi reclama la mano della figlia di Tito, Lavinia, ma la ragazza si è sposata in segreto con Bassiano e i due fuggono via. Saturnino allora decide di prendere in sposa Tamora, in quanto i due sono accomunati dal desiderio di vendetta nei confronti di Tito e della sua stirpe.
Sotto consiglio del consigliere imperiale Aronne i figli della regina, Chirone e Demetrio, tendono un’imboscata a Bassiano e lo uccidono, stuprano Lavina e le amputano mani e lingua. Come se non bastasse Aronne accusa i figli di Tito, Quinto e Marzio, dell’omicidio di Bassiano e l’imperatore li arresta e li fa giustiziare.
Segue una vera e propria scia di sangue fino a quando Lavinia, aiutandosi con un rametto in bocca, non traccia sul terreno i nomi dei suoi aguzzini. Allora Tito decide di ordire la sua vendetta, molto più scellerata di quella dell’imperatore e della sua consorte.
Un mondo di violenza e di violenti
Shakespeare ci offre una tragedia lontana dai fasti della sua produzione successiva. Infatti si tratta di una storia cruda, in cui gli uomini si massacrano tra di loro per dominare incontrastati e che non conoscono altro mezzo per dominare all’infuori della violenza.
Ed è proprio la violenza il punto su cui dobbiamo soffermarci. Shakespeare non si risparmia nel descrivere scene disturbanti e difficili da concepire per lo spettatore. A tale proposito, analizziamo una delle scene più significative: la tortura subita da Lavinia nella scena quarta dell’atto II.
DEMETRIO – Ed ora, bella, vallo a raccontare,
se la tua lingua può parlare ancora,
chi te l’ha mozza e chi t’ha violentata.CHIRONE – E se i tuoi moncherini
ti consenton di fare la scrivana,
scrivi quello ch’hai in mente,
e comunica agli altri il tuo pensiero.DEMETRIO – Guarda come riesce, tuttavia,
con segni e gesti a fare scarabocchi!CHIRONE – Ora vattene a casa,
chiedi d’aver dell’acqua profumata,
e ti lavi le mani.DEMETRIO – Che chiede, che si lava? Non ha lingua
per chiedere, né mani da lavare.
Lasciamola al suo muto passeggiare.CHIRONE – Al suo posto, m’andrei ad impiccare.
DEMETRIO – Sì, se avessi le mani
per annodarti il cappio della corda!(…)
Chirone e Demetrio si fanno beffa della loro vittima, ridicolizzandola ed insultandola. Non c’è spazio per l’analisi psicologica, c’è solo la volontà di mostrare al pubblico una scena di forte impatto, pesante da digerire e potente in tutta la sua crudeltà. La riflessione e la compassione lasciano spazio ad una cinica visione del mondo, dove l’unica legge ammessa è quella del più feroce, del più sadico, del più depravato.
Se poi ci spostiamo sul versante dei personaggi, si ha conferma di quello che si è detto sopra. Non esiste distinzione tra buoni e cattivi, poiché tutti quanti sono intrisi di perfidia. Per il nostro discorso risulta interessante il personaggio del moro Aronne, amante segreto della regina Tamora (tanto da arrivare ad avere persino un figlio da lei). Diabolico tessitore di trame, non si fa alcuno scrupolo ad ingannare il prossimo e spesso se ne guadagna la fiducia con una patetica empatia.
ARONNE – Tito Andronico, il nostro imperatore
ti manda a dire questo: vecchio Tito,
se ami i figli tuoi, che Marco, o Lucio,
o tu, o chiunque della tua famiglia,
vi mozziate una mano
e la mandiate a sua maestà imperiale;
ed egli, in cambio, ti rimanderà
qui, vivi, i tuoi due figli: sarà questo
il riscatto per ogni loro colpa.
TITO – Grazioso imperatore!
E tu, cortese Aronne! Ha mai cantato
il corvo con le note dell’allodola
che dolcemente annunciano il mattino?
Ma sì, con tutto il cuore
mando all’imperatore la mia mano. (…)
Abile ingannatore, Aronne riesce a convincere Tito e suo figlio Lucio a privarsi di una mano per riavere Quinto e Marzio, ingiustamente accusati dello stupro di Lavinia. Aronne arriva persino ad autoelogiarsi, pregustando l’attimo in cui Tito riceverà solo le teste mozzate dei figli prigionieri.
Se questo è inganno, io posso dirmi onesto,
perché mai di sicuro, finché vivo,
ingannerò nessuno a questo modo.
Non possiamo però tralasciare l’analisi del personaggio che dà il nome alla tragedia shakesperiana, Tito. All’inizio ci viene presentato come un orgoglioso generale, fiero del suo ruolo e fedele alle tradizioni. Ma le torture subite dai suoi figli lo portano lentamente alla follia, a dimenticare ogni suo precetto morale e a ripagare con la stessa moneta i carnefici dei suoi figli.
La piena rappresentazione di tutto questo la si trova nel quinto e ultimo atto, dove Tito invita Saturnino e Tamora ad un “banchetto della pace”. Ma quando Saturnino chiede al generale dove si trovino i figli, Tito coglie l’occasione per dare dimostrazione della sua stessa crudeltà.
TITO
Ma eccoli, son qui davanti a te,
entrambi cucinati in quel pasticcio
di cui con tanto gusto la lor madre
s’è pur ora cibata, ingurgitando
la carne da lei stessa partorita.
Così è, così è, n’è testimone
l’aguzza punta di questo coltello. (…)
Shakespeare e i suoi modelli
Il grandguignolesco spettacolo a cui assistiamo non rappresenta un’innovazione. Difatti Shakespeare attinge a vari modelli. Primo su tutti Thomas Kyd; e l‘unico testo pervenutoci di questo autore e primo esempio di “tragedia di vendetta” che poi sarà alla base proprio del Tito Andronico.
Ma il drammaturgo trova i suoi modelli soprattutto in Ovidio e in Seneca. Dal primo prende in prestito il mito di Procne e Filomela, descritto nel VI libro delle Metamorfosi e trasposto nella tragica vicenda di Lavinia. Da Seneca invece prende l’ultima scena del Tieste, anche questa una tragedia che si conclude con un terribile banchetto in cui Atreo divora inconsapevolmente i propri figli.
Il richiamo ai due modelli è però anche linguistico. Shakespeare infatti usa termini alti, ma anche metafore di ampio respiro che richiamano alla classicità. Uno stile che però non rinuncia alla chiarezza espositiva, pensata anche per il pubblico variegatamente sociale che presiede al Globe Theater.
ARONNE: Tamora è ormai sulla cima dell’Olimpo; siede in alto al sicuro dai colpi della fortuna e da rombo dei tuoni, dal bagliore dei lampi, fuori dalla portata d’ogni minaccia della pallida invidia. Come quando il sole dorato saluta il mattino e, cosparso d’oro l’oceano dei suoi raggi, galoppa per lo zodiaco nel cocchio scintillante, avendo le più eccelse alture sotto al suo sguardo, tale è Tamora (…)
Tito Andronico: tragedia sulla violenza o contro la violenza?
La critica si è divisa nel dare un giudizio effettivo sul Tito Andronico. Una parte ne è disgustata, reputando la tragedia un diseducativo spettacolo di violenza gratuita e quindi relegata nel limbo dell’esperimento giovanile. Un’altra parte ne è invece entusiasta, considerandola una tragedia che già mostra un Shakespeare capace di delineare personaggi oscuri e bramosi di potere.
Che la si ami o la si odi la tragedia, intrisa di un gusto pulp, sembra voler lo stesso comunicare un messaggio condivisibile da entrambe le parti: la violenza genera altra violenza, il sangue versato reclama sempre vendetta. Gli uomini sono pronti a commettere le azioni più amorali e ripugnanti per trovarsi su un gradino più in alto rispetto agli altri, ma ciò non li mette al sicuro da altri uomini ancor più affamati di potere e pronti a scannarsi tra di loro con violenza ancora più estrema e brutale.
Certamente la tragedia può risultare disturbante per un pubblico composto da spettatori sensibili e facilmente impressionabili, ma sarebbe del tutto sciocco arrivare addirittura a negarne l’esistenza. Del resto abbiamo avuto modo di conoscere opere letterarie, teatrali, pittoriche e cinematografiche molto più cruente e la maggior parte di queste, proprio come il Tito Andronico, non rappresentano una pura esaltazione della violenza.
Cercano piuttosto di sviscerarla e di analizzarla in ogni sua espressione, allo scopo di dimostrare che questa è un elemento intriso da sempre nella razza umana. In fondo, per citare Sam Peckinpah, che senso avrebbe “rifiutare di riconoscere la natura animale dell’uomo”?
Ciro Gianluigi Barbato
Bibliografia
W. Shakespeare – Tito Andronico ( a cura di Agostino Lombardo) – Feltrinelli
Sitografia
Tito Andronico su Shakespeare web