Contesto storico e geografico
La Toscana, si sa, è una terra feconda di numerosi ingegni ed è custode di altrettanti tesori artistici. Tra i tanti capolavori, dietro l’altare della chiesa di San Domenico ad Arezzo si conserva il Crocifisso di Cimabue.
È stato difficoltoso accertare la paternità dell’opera ma dopo affannose ricerche la tavola è ormai unanimemente attribuita al pittore fiorentino. Sono poche le notizie concernenti la vita dell’artista e questo ha compromesso non poco la sua fortuna; addirittura fu messa in discussione l’esistenza del personaggio, ipotesi prontamente smentita.
Cenni di Pepo detto Cimabue nasce a Firenze intorno al 1240; a detta di Baldinucci tanto l’arte migliorò comunicandola anche ad altri che eccellentemente la professarono e non a caso gode del titolo di maestro di Giotto. Firenze, Pisa, Bologna, Assisi furono depositarie delle sue opere.
Il Crocifisso di Arezzo: iconografia
Ligneo sagomato e bordato in oro (336×267 cm), fu commissionato dai frati domenicani della città a Cimabue, foraggiati da papa Clemente IV, intorno al 1270. Esso presenta Cristo e all’estremità della tavola orizzontale i dolenti: a sinistra la Vergine e a destra San Giovanni e nella cimasa in aggiunta di un clipeo, in corrispondenza con il capo di Gesù, compare Cristo benedicente realizzato probabilmente da un collaboratore dell’artista.
Cimabue concepisce l’opera prediligendo l’immagine tragica di Cristo morente, meglio conosciuta come Christus patiens . L’iconografia scelta non è inedita ma è ugualmente interessante notare come tutto è orchestrato.
Si tratta di un repertorio iconografico molto antico e fortemente emotivo, nella fattispecie è mutuato dalle opere di Giunta Pisano e Marcovaldo. Ciò nonostante, nel Crocifisso di Arezzo Cimabue non realizza una mera imitazione. Il Maestro stilisticamente realizza uno strappo decisivo dalla dura e spigolosa ieraticità bizantina salvandone solo il carattere assimilabile all’oreficeria. La croce latina accoglie il Figlio di Dio che è tutt’altro che statico. La linea serpentina di Gesù, estremamente sofisticata, fornisce dinamismo in un evidente stato di inerzia. Il corpo inanimato, caratterizzato da un incarnato cinereo, è affusolato. Le braccia lunghe e tese mostrano i bicipiti resi con tratti decisi esattamente come è incisivo la linea dello sterno e la tripartizione dei muscoli addominali molto pronunciati. Cristo ha il capo chino, i capelli cadono lungo le spalle, il volto è connotato da labbra inclinate, segno delle sofferenze patite. Dal palmo delle mani e dai piedi bloccati da due chiodi sgorga il sangue che cade pesante e in modo inverosimilmente dritto. La pennellata di tempera è sicura e sottile; di precipuo livello è la resa chiaroscurale della barba bruna.
L’abilità di Cimabue si dimostra nella resa del perizoma cardato che non lascia visibili le nudità. L’indumento ha una materialità consistente, ottenuta mediante la tecnica dell’agemina che consiste nell’incastro di piccole sezioni metalliche, generalmente oro e argento. Malgrado alcune cadute di colore, il cromatismo è brillante e prezioso.
Seducente è l’imitazione del marmo rosso che incornicia il corpo di Cristo, rafforzata dalla rappresentazione di rombi neri rifiniti con volute rosse.
I dolenti hanno un espressione patetica. Entrambe le figure si stagliano sul fondo aureo rettangolare, hanno il capo inclinato sulla guancia. Sembrano icone bizantine ma il panneggio pesante e massiccio conferisce loro plasticità.
La Vergine, dal capo coperto e avvolta in un ampia veste, e San Giovanni piangono con compostezza: non c’è clamore o fragore, regna un dramma intimamente contenuto. Le mani cullano con estrema umanità le guance, mestamente inclinano il capo verso la croce e stringono l’attenzione esclusivamente verso il Figlio di Dio. Questi elementi troveranno pieno sviluppo e completezza nel Crocifisso di Santa Croce (1272-1280).
Il tutoraggio di Giotto da parte di Cimabue ha troppe volte offuscato il suo nome e ridimensionato il ruolo di artefice di un rinnovamento pittorico nel duecento. Credette Cimabue ne la pittura di tenere lo campo, e ora Giotto ha il suo grido, così racconta Dante nel XI canto del Purgatorio.
Tuttavia il Maestro apre le porte a una nuova temperie artistica allontanandosi dalla pittura inanimata bizantina in direzione di una pittura palpitante di vita.