La Testa Carafa è una delle opere più celebri della storia della città di Napoli, un’opera fortemente simbolica che per molti anni ha rappresentato la stessa identità culturale della nostra città.
La Testa Carafa appartiene sin dall’epoca napoleonica al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, anche se da anni ormai essa non è più collocata all’interno del percorso museale, in quanto è stata spostata nell’arco di ingresso agli uffici della Soprintendenza Archeologica, dove non può essere ammirata dalla maggior parte dei visitatori del museo.
La protome non si trova più insieme alle altre sculture del Museo perché da anni ormai gli studiosi ritengono che non si tratti di un pezzo classico, e allo stesso tempo non si trova nei musei moderni di San Martino o Capodimonte perché al momento della fondazione e dell’allestimento di questi ultimi la Testa Carafa era considerata da tutti un pezzo antico. Un pezzo tra l’altro rarissimo sia per la resa naturalistica dei dettagli che per le sue dimensioni: la sola testa misura 175 cm e immaginando l’intera opera con cavallo e cavaliere si arriverebbe ad un’altezza di circa 5 m.
La monumentalità e la bellezza della Testa Carafa richiamarono molti visitatori illustri, tra i quali lo stesso Johann Wolfgang von Goethe che durante il suo soggiorno a Napoli nel 1787 volle vedere la protome che all’epoca era collocata nel cortile di Palazzo Carafa, che era chiamato per antonomasia il “Palazzo del cavallo di bronzo”. Diomede Carafa, conte di Maddaloni, illustre uomo del Quattrocento, aveva collocato la Testa Carafa nel cortile del suo palazzo per il pubblico godimento e per esaltare le radici antichissime greco-romane della nostra città.
Egli conosceva l’origine della protome, ma le guide della città svelavano anche altre motivazioni alla base della venerazione della scultura: in primo luogo la scultura era antica e in secondo luogo era antica e non anonima, e la sua creazione era legata al nome del poeta latino Virgilio.
Virgilio era per Napoli molto più di un semplice poeta, in quanto egli aveva fatto della città un’importante centro della sua vita, tanto è vero che, morto a Brindisi, fu poi sepolto a Napoli.
Dimenticato per molti anni, il suo ricordo riaffiora dopo l’epoca medioevale e Virgilio viene celebrato non solo come autore e poeta, ma anche come mago. Sono molte le fonti antiche che narrano dei poteri taumaturgici di Virgilio e tra i testi più importanti ricordiamo l’anonima “Cronaca di Partenope”, dove il poeta viene ricordato soprattutto per la sua capacità di realizzare sculture di animali che potessero tenere lontani i pericoli oppure portare benefici ai napoletani.
Tra le opere viene ricordato proprio un cavallo di bronzo creato con lo scopo di guarire i cavalli stanchi della città. Il potere della Testa Carafa era così forte che essa venne esposta nel Duomo, e vi rimase fino a quando non fu distrutta da alcuni maniscalchi di Napoli, i quali preoccupati da questa “concorrenza” sventrarono il cavallo. La violenza dei maniscalchi fu tanta che si salvò dell’intera opera solo la testa, finita poi nel palazzo di Diomede Carafa grazie al dono di un arcivescovo di Napoli, e successivamente nel 1809 Francesco Carafa la donò al Museo Archeologico.
Arrivati sino a questo punto la narrazione potrebbe sembrare semplice e lineare, ma la lettura della Testa Carafa si complica quando a metà 500’’ Giorgio Vasari afferma nelle sue Vite che la protome non era antica, ma eguagliava l’antico, ed era opera di Donatello, il massimo scultore italiano del XV secolo. Ovviamente l’aretino fu coperto da critiche, e la querelle si placò solo quando l’autorità di Winckelmann affermò che la Testa Carafa fosse antica e non vi erano dubbi.
In epoca risorgimentale furono effettuate numerose ricerche archivistiche e venne ritrovata una lettera datata 12 luglio 1471 scritta da Diomede Carafa, il quale ringrazia Lorenzo il Magnifico “per avergli donato la protome”.
Ritornò subito il ricordo della notizia di Vasari e cominciò la ricerca bibliografica: la protome era menzionata, nelle fonti precedenti il Vasari, come opera di Donatello e come parte di una scultura equestre voluta da Alfonso il Magnanimo. Grazie ad alcuni documenti di epoca aragonese ritrovati nell’Archivio di Stato di Barcellona e grazie ad un disegno del celebre artista Pisanello, sappiamo che il monumento equestre doveva essere collocato nel grande vano sul quale si apre il fornice superiore dell’arco di ingresso di Castel Nuovo.
Studi recenti sulla Testa Carafa, realizzati dal professore Francesco Caglioti, dimostrano una straordinaria somiglianza della protome, soprattutto nella resa naturalistica dei dettagli dell’animale, con il celebre “Gattamelata”. Inoltre all’interno degli archivi di Firenze sono state ritrovate alcune lettere di Bartolomeo Ferragli, un fiorentino che svolgeva il ruolo di “agente d’arte” per il re, e all’interno di esse si accenna a pagamenti per una grande fusione in bronzo che Donatello stava realizzando per il re Alfonso, prima parte di un gruppo a cavallo mai finito.
L’incompiutezza della Testa Carafa si spiega facilmente: nel 1458 Alfonso il Magnanimo muore e i lavori per l’arco, comprese le opere scultoree, si fermano. Quando Ferrante riprese i lavori dell’arco nel 1465, Donatello aveva settantanove anni; morì l’anno dopo lasciando l’intero patrimonio della sua bottega ai Medici, i quali ritennero opportuno spedire la protome a Napoli. Ferrante si rese conto che la Testa Carafa non poteva non essere esposta e così la donò a Diomede Carafa, principale cortigiano del re, che la espose nel suo palazzo.
Dopo poche generazioni l’intera faccenda fu completamente dimenticata e fu molto più semplice credere alla versione della scultura realizzata da Virgilio mago.
Manuela Altruda