Godendo del rispetto – o dell’ammirazione o di qualunque sia quel particolare sentimento che non ha a che vedere con budget e incassi e che spinge a scritturarti per un film – di molti prolifici registi, Matt Damon dispone del conforto di non doversi necessariamente curare di alcune critiche mosse alla sua espressività. Perché, a farla breve, c’è chi dice che la sua non sia versatilità, quanto piuttosto fissità. La fissità adattabile di un jolly.
Matt Damon sa recitare?
Chi lo stabilisce?
Matt Damon, che si risponda sì o no, o che non si risponda affatto, continua a ottenere parti sotto regie illustri, da “L’uomo della pioggia” (Francis Ford Coppola – 1997) a oggi. Magari non basta Coppola a metterti nella lista ‘Preferiti’ del cinema moderno, ma Steven Spielberg, Terry Gilliam, Martin Scorsese, Clint Eastwood e i fratelli Coen potrebbero dare una mano, oltre poi all’essere entrato a far parte della “cricca” di George Clooney.
Insomma, il fatto è che Matt Damon sbuca fuori qua e là nell’oceano del cinema sempre a cavallo di balene che promettono tanto e fruttano ancora di più. Già a 27 anni, ad esempio, fu Will Hunting accanto al compianto Robin Williams nell’omonimo film di Gus Van Sant, e, in perfetta linea con il personaggio che interpretava, si dimostrò essere un ragazzo prodigio che non sfigura accanto ai miti.
Questo accade perché i jolly sono talmente docili da star lì senza adombrare e ostacolare nessuno mentre con modestia mettono in gioco il proprio piccolo potenziale, impermeabilizzandolo alle grandi doti dei mostri sacri lì attorno? O perché il loro talento gli permette di tener testa a suddetti mostri sacri?
Nel 1998 diventa uno dei fratelli Ryan, quello da salvare, in “Salvate il soldato Ryan” (Steven Spielberg – 1998) e il suo faccino pulito con gli occhi azzurri e piccoli, le sopracciglia un po’ cascanti e la mascella piena di ardimento e valore, non potrebbero rappresentare meglio, nemmeno se Spielberg lo avesse disegnato di suo pugno, il patriota coraggioso, leale e candido, che di fronte alla possibilità di tornare a casa sceglie invece di rimanere a combattere per le stelle e le strisce, i gloriosi Stati Uniti d’America, Dio li salvi, li benedica, eccetera eccetera.
Se impiegati in modi diversi rispetto alla retorica di un amore per gli USA senza doppifondi o finalità minimamente devianti dal patriottismo, quei caratteri di cui sopra – sguardo innocente a tratti vacuo e sperduto; sopracciglia; mascella – sono una manna.
Perché “Ocean’s Eleven” (Steven Soderbergh – 2001), pur nella sua inverosimiglianza e con le sue poche pretese in ogni direzione se non in quella dell’intrattenimento leggero, è così godibile e divertente per ogni tipo di pubblico? Certo, perché la truffa è una sicura fonte di successo al botteghino, e certo, anche perché come fonte è sfruttata alquanto bene. Ma soprattutto per gli Undici del titolo, di cui fanno parte George Clooney, Brad Pitt e, eccolo, Matt Damon. Con una certa genialità, si gioca proprio sull’aria da angioletto tonto dell’attore, trasformandola nella strategia difensiva di un ladro e borseggiatore di prima categoria.
Altro ottimo modo di sfruttare quell’aria è trasformarla in maschera di innocenza in “The Departed – Il bene e il male” (Martin Scorsese – 2006): cosa può essere più efficace dell’affiancare un Leonardo DiCaprio tormentato e sofferente al nostro Matt, la pace fatta a uomo, la purezza soffice e ben tesa su un doppiogioco trattenuto sottopelle?
Chi lo stabilisce, quindi,
se Matt Damon sa recitare?
Si può dire che lo stabilisca il “Canone”? Potremmo, se ammettessimo l’esistenza di un “Canone cinematografico”.
La schiera di celebri registi – o di grandi produzioni – che lo sceglie a più riprese per ruoli di vasta risonanza, lo consacra e stabilisce il suo diritto imprescrittibile a considerarsi un grande attore, a prescindere dalla benedizione di Talia e Melpomene. Anzi, se quello che stiamo chiamando il “Canone” del cinema moderno – e cioè i grandi che hanno contribuito a rifinire l’odierna grammatica della pellicola – lo ha preso sotto la propria egida inserendolo tra i divini quarantenni degli anni 2000, Matt Damon stesso può dirsi parte del “Canone attoriale”, e discutere del suo talento ha senso solo se si ha il piacere della diatriba.
Ruoli su ruoli scivolano su di lui, senza che Damon vi si adatti: al contrario, è l’attore che li piega alla propria monolitica espressività, dando sempre e comunque una nota di innocenza tonta ai suoi personaggi. Così accade in “Invictus – L’invincibile” (Clint Eastwood – 2009), ne “Il Grinta” (Joel e Ethan Coen – 2010), in “Promised Land” (Gus Van Sant – 2012), in “Elysium” (Neill Blomkamp – 2013) e in “Monumets Men” (George Clooney – 2014).
Forse Terry Gilliam, sebbene non ci fosse riuscito ne “I fratelli Grimm e l’incantevole strega” (2005), in “The Zero Theorem” (2013) riesce a infondergli una vena di crudeltà lasciandolo pressoché immobile nei suoi completi improbabili, e facendo della sua irrimediabile impassibilità l’origine del timore che incute. Forse anche Christopher Nolan, in “Interstellar” (2014), è riuscito a caratterizzarlo, sfruttando ancora una volta il suo fatuo aspetto incontaminato come trappola per i fiduciosi.
E Ridley Scott, in “Sopravvissuto – The Martian”, uscito da noi il 1° ottobre, cos’è riuscito a fare?
Chiara Orefice