Dopo alcune divertenti vicende tipiche dei low budget, “Halloween – La notte delle streghe” di John Carpenter vede la luce. È il 1978, l’anno di nascita del mito di Michael Myers, l’incarnazione del male, all’epoca interpretato da Nick Castle.
Quasi trent’anni dopo, Rob Zombie fa ripartire da zero il personaggio (Tyler Mane) con “Halloween – The Beginning”, trattandone l’aspetto diabolico in tutt’altra maniera…
John Carpenter, 1978: cosa non è Michael Myers?
L’inizio, per come lo creò Carpenter, era senza spiegazioni. Si trattava dell’esibizione del prodotto di una formula ignota: un figlio di qualcuno che di cognome fa Myers è fatto in tal modo, uccide le persone, e ha cominciato con sua sorella una sera di Halloween.
L’inizio in soggettiva, dentro gli occhi del piccolo Michael (Will Sandin), tradisce di fatto la propria implicita promessa di immedesimazione, conservando infatti un silenzio che disorienta e che di certo poco aiuta a capire; anzi, proprio perché prima di tutto lo spettatore è chiamato a partecipare alle azioni di Michael, senza avere il potere né di impedirgli di accoltellare sua sorella né di accelerarne le mosse, si è in bilico tra la repulsione per l’atto (benché minima, trattandosi di un horror che predice un po’ di sangue) e l’attesa di sapere il chi, il come, il perché.
Appena si è fuori dalla visuale di Michael Myers si riceve qualche sporadica informazione; d’altro canto, finché si è dentro, si percepisce il nulla, il vuoto e il buio: fattori spiazzanti per chi guarda, si potrebbe anche dire inutili e insoddisfacenti. Eppure, probabilmente, la negazione di tutto quel che umano si può definire è l’interpretazione della personalità in questione più vicina al giusto. O almeno così la penserebbe il dottor Loomis (Donald Pleasence), l’unico che ha guardato oltre la soglia, nell’oscurità del Male.
Sì, perché la certezza del dottor Loomis è che Michael incarni il Male al suo stato più puro. E nonostante ciò, questo Male con la maiuscola non risiede tanto nel modo in cui avvengono gli omicidi: non c’è nessuna oscura maestosità nelle azioni di chi viene chiamato “l’ombra della strega“. Non ci sono né riti, né parole terrificanti, né circostanze che sollevino il livello di vittime e luoghi dal grigiore del qualunque. Insomma, il Male passa per una tuta da meccanico e una maschera del capitano Kirk dipinta di bianco, per un coltello da cucina e movenze da manichino. Allo stesso modo, il Bene passa per Laurie Strode (Jamie Lee Curtis), una ragazza che vive in periferia, che studia, che fa da baby-sitter e poco altro.
Proprio le baby-sitter sono il tema portante del primo film. È vero che di Michael Myers non si ha spiegazione, ma qualche idea si stiracchia in dormiveglia: la rabbia per essere stato trascurato dalla sorella che avrebbe dovuto fargli appunto da baby-sitter la notte di Halloween lo induce a cercare le ragazze impegnate in analoga occupazione quella stessa notte dell’anno? Oppure l’aver sperimentato il suo primo omicidio in precise circostanze lo ha portato a fissare e tentare di reiterare certi particolari “gustosi”?
L’unico indizio fornito è la scritta che viene ritrovata incisa sulla porta della cella da cui Michael scappa: “sister” (“sorella”). È solo dal secondo film (“Halloween II – Il signore della morte” di Rick Rosenthal – 1981) in poi che quella scritta, prima solo un’ambigua indicazione sulla direzione da prendere per fermare l’ombra della strega, viene sfruttata per trasformare Laurie nella seconda sorella di Michael Myers: nei capitoli della saga che seguono, il tema della baby-sitter diventa sempre più marginale, lasciando il posto invece all’ossessiva distruzione dei legami di sangue.
Rob Zombie, 2007: chi è allora Michael Myers?
Rob Zombie raccoglie le informazioni che i sequel hanno fornito senza un vero ordine logico, per poi ricominciare da capo e ricapitolare tutto in quello che è stato presentato come il remake dello storico horror carpenteriano.
Sarebbe stato sciocco emulare la pulizia e l’essenzialità del ’78 – dovute anche all’elegante condizione del genio squattrinato. La scelta è in direzione opposta, quindi: laddove parole e particolari erano stati eliminati, ora chiasso e notevoli dosi di informazioni trasformano completamente la resa finale della storia, e questo vale soprattutto per Michael Myers.
Se il piccolo Michael del ’78 inquietava perché privo di origini sia genetiche che psicologiche, nel 2007 il quadro familiare è presentato metodicamente, dimostrando tutt’altro intento: raccapricciare mostrando tutto, troppo, dal sadismo precoce verso gli animali all’alcolismo del patrigno violento.
Gli archetipi si perdono, così come l’ordinarietà dei mezzi e l’umiltà della scenografia: Laurie (Scout Taylor-Compton) non è più il Bene, adesso è solo la sorella minore di Michael – lo si sa infatti fin dall’inizio – che scopre spiacevolmente le proprie origini, sottolineando la rilevanza dei legami familiari tramandata dai sette film precedenti.
Parallelamente, il dottor Loomis (Malcolm McDowell) non è più il Guardiano di Carpenter, integro e saggio per quanto spaventato e radicale nelle scelte. Il nuovo dottore è uno sciacallo, talmente preso dal denaro, a spese di chi è personalmente coinvolto nella vicenda, da risollevare Michael Myers dalla sua condizione di antagonista assoluto, contribuendo così a portarlo allo status di vittima degli eventi.
Il Male non è più una forza oscura suprema, terribile, incontenibile dall’intelletto come da forze fisiche: la formula che prima era ignota viene qui scomposta e analizzata in ogni suo passaggio, per riportare Michael Myers al terreno e al materiale. Si tratta di un uomo letteralmente diabolico, sì, ma pur sempre un uomo; di un corpo le cui misure sovrannaturali sono spesso ribadite, ma che rimane un corpo; e di una mente non più occulta e mostruosa, ma perversa e malata.
Chiara Orefice