Le classificazioni sono sempre state oggetto di amore e odio da parte degli appassionati di musica: se da una parte è odioso il pensiero di voler mettere un’etichetta su ciò che si sta ascoltando, dall’altra, invece, può essere un’operazione necessaria; si pensi al classico esempio dell’ascoltatore alle prime armi che, cercando un disco di cantautorato italiano da regalare alla sua ragazza, finisce col regalarle la discografia dei Cannibal Corpse. Ma c’è un genere musicale che, per le sue caratteristiche, riesce sempre ad essere riconosciuto da ogni fruitore, senza bisogno di etichette e di critici: parliamo del progressive rock.
Nato verso la fine degli anni ’60 in Inghilterra, grazie all’apporto di band come Pink Floyd, Yes, King Crimson, questo tipo di musica si è sempre distinto per la sua ricercatezza, sia melodica che ritmica. Album come In the court of the crimson king, possono facilmente far comprendere ciò di cui stiamo parlando: la cura quasi maniacale per le melodie e l’utilizzo di poliritmie crearono un vero e proprio solco tra queste band e tutte le altre, finendo per influenzare anche le scelte artistiche dei gruppi moderni. Basti pensare a quanto una band del calibro dei Dream Theater sia debitrice nei confronti dei Rush per farsi un’idea di quanto grande sia stata l’eredità lasciata dal progressive rock.
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=49RbvU3LbQk]
La ricerca di nuove sonorità ed il continuo sviluppo della tecnica fino a lidi prima inesplorati, con il passare del tempo, hanno inevitabilmente settorializzato l’audience di questo genere, che può essere pienamente apprezzato non tanto da un ascoltatore casuale, ma da chi abbia una preparazione musicale.
Proprio da queste premesse, sorge una domanda:
Il Progressive Rock è una musica per tutti?
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=1eSlvoO3Vw8]
Nonostante ogni ascoltatore e appassionato di musica abbia i suoi gruppi preferiti, che “giustamente” ritiene essere i migliori al mondo per i motivi più diversi, qualche giorno fa Mike Mangini, attuale batterista dei Dream Theater, band di spicco del panorama Progressive Rock e Metal mondiale, sul proprio profilo facebook, ha dichiarato quanto segue:
Do you have a friend that just doesn’t ‘get’ Prog Music when the music gets rhythmically crazy? Know anybody that says…
Posted by Mike Mangini on Martedì 6 ottobre 2015
Per i non bilingui, il post può essere così riassumibile: «avete mai avuto un amico che afferma che le poliritmie del progressive sono prive di groove? Bene, potete dirgli che si sbaglia!» Le affermazioni di Mangini si basano su uno studio che afferma che l’area del cervello, denominata BA47, sarebbe quella incaricata, tra le sue varie funzioni, di elaborare la sintassi musicale. In mancanza dello sviluppo, o meglio, del mancato apprendimento delle poliritmie, renderebbe il loro ascolto pressoché incomprensibile.
Volendo essere cattivi, questo pensiero potrebbe essere riassunto nella pericolosa ed indifendibile affermazione:
Il problema non è nella musica, ma nel tuo cervello.
Questo stato di cose, nonostante l’amore incondizionato per il progressive rock, non può essere condiviso, soprattutto se poi viene rincarato dall’affermazione «neanderthal 4/4». Quest’ultima affermazione, che classificherebbe il 4/4 come un ritmo preistorico, desueto e, fondamentalmente, “non progressive”, è ancora più indigesta, e merita un approfondimento.
Il progressive rock nasce e si sviluppa come una musica colta e non adatta a tutti i tipi di ascoltatore, soprattutto pensando alla cura che band come Emerson, Lake and Palmer, Genesis e Rush, riponevano nei loro arrangiamenti. Si vuole affermare che l’utente medio può non arrivare a comprendere le poliritmie? Può essere. Si vuol dire che l’ascoltatore del 2015 desidera una “musica da fast food“? Anche questo può essere, ma occorre aggiungere dell’altro.
Anche i succitati gruppi degli anni ’70 avevano a che fare con la musica mainstream, ma sono riusciti, con il loro estro e la loro creatività, ad imporre il progressive rock come musica di massa, ottenendo carriere luminose, una fama immortale e milioni di dischi venduti. Come si spiega tutto questo? In maniera molto semplice.
Il progressive rock non è una musica fine a se stessa.
Il progressive rock degli anni ’60 e ’70, nonostante fosse una musica elaborata e, sotto certi aspetti, elitaria, non era un ermetismo fine a se stesso, ma riusciva a coinvolgere le masse, e ad affascinare anche chi di musica non sapeva nulla. Il progressive con cui abbiamo a che fare oggi è, spesso e volentieri, “musica per musicisti”, che può essere apprezzata da chi ha studiato la musica e apprezza certi passaggi melodici e ritmici, ma può lasciare completamente indifferente l’ascoltatore casuale.
Non ci si stupisce, quindi, del fatto che oggi il progressive rock/metal rappresenti una nicchia, ma soprattutto ci viene da domandarci: perché mai il 4/4 sarebbe una cosa “da uomo di Neanderthal”? Che colpa ne ha lui se è il ritmo più conosciuto e comprensibile al mondo? Che colpa ne ha lui se ogni essere umano, quando immagina di suonare uno strumento, in un modo o in un altro, finisce per suonare qualcosa in 4/4?
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Volendo tirare le somme di questo discorso, sembra quasi che nel 2015, in una fase in cui la musica “non da fast food”, per dirla alla Mangini, è sempre più ricercata, con suoni puliti e produzioni cristalline, solo una cosa sembra effettivamente mancare: la voglia, da parte del musicista, di relazionarsi con l’ascoltatore.
Claudio Albero