Nella piéce teatrale A porte chiuse, Sartre mette in scena l’inferno, un inferno dalla connotazione terrena, che affonda le radici nell’esistenzialismo.
In una polemica contro l’asserzione leibniziana sul nostro mondo come “il migliore dei mondi possibili”, Schopenhauer colloca l’inferno nei luoghi più corrotti dal degrado genuinamente umano: da scenari parte della nostra quotidianità e da null’altro, aggiunge, Dante avrebbe recuperato gli elementi necessari alla stesura del suo Inferno (trovandosi poi, d’altra parte, in seria difficoltà creativa per le restanti due cantiche della Commedia!).
Molteplici autori, la cui enumerazione sarebbe difficoltosa in questa sede, sono stati suggestionati dall’immagine di un inferno terreno. E dai caratteri terreni, sebbene effettivamente ultraterreno, è anche l’inferno che Sartre mette in scena nella sua piéce teatrale in un solo atto, A porte chiuse (1944).
Come si collega, dunque, tale concezione al suo apparato filosofico?
A porte chiuse: la trama e i personaggi
In una stanza arredata in stile Secondo Impero, bloccata dall’esterno, senza finestre né specchi, tre persone mai conosciutesi precedentemente si ritrovano in uno stato di veglia indotto, fronteggiando la prospettiva di rimanere assieme per l’eternità.
È questo il «teatro di situazioni» presente in A porte chiuse, che Sartre teorizza nel suo saggio Che cos’è la letteratura: una «trappola per sorci», in cui la libertà dell’uomo risiede proprio nel vincolo impostogli dalla situazione stessa, e nel suo rapportarsi a questo vincolo.
Man mano che la coscienza di trovarsi all’inferno si fa strada, le aspettative di Garcin, Inès ed Estelle divengono oppressive, inquietanti.
È Inès, col suo cinismo, a condurre anzitutto i due all’accettazione della propria dannazione, ed è lei la chiave di volta per comprendere le vicende biografiche dei personaggi. Garcin, brasiliano, era fuggito dalla guerra e aveva ripetutamente seviziato la moglie; Inès, travolta dalla passione saffica nei confronti di un’altra donna, l’aveva persuasa ad uccidere suo marito; Estelle, avuto un bambino dal suo amante, si era macchiata d’infanticidio, trascinando con sé anche la colpa per il suicidio dell’amante stesso.
In quest’inferno, tuttavia, non viene consumata alcuna tortura fisica.
Inès: Guardate che cosa semplice: insipida come una rapa. … Il boia è ciascuno di noi per gli altri due.
La claustrofobia del dramma è indotta dal continuo divenire del rapporto tra i tre, in particolare quello tra Estelle e Garcin, i quali tentano a diverse riprese la forzatura dell’approccio sentimentale per garantirsi quel poco di stabilità che basterebbe per sopravvivere (terminologia anche impropria, visto che, a detta di Sartre, di «morti viventi» si tratta).
Inès osserva e a suo modo gestisce, pur detestata, il fallace gioco dei rapporti umani, nel quale tutti si rivelano effettivamente carnefici degli altri: presa coscienza di ciò, Garcin si rivolge alla porta, desideroso di scappare:
Garcin: Aprite, aprite perdio! Accetto tutto, lo stivaletto, le tenaglie, il piombo fuso, le pinze, la garrotta, tutto quel che brucia, che lacera, voglio soffrire sul serio.
L’apertura sorprendente e improvvisa della porta non è tuttavia un deus ex machina: esercitando la sua libertà radicale, Garcin sceglie di richiuderla, trovandosi dunque nella posizione di scegliere anche per gli altri. Nulla, nelle condizioni dei tre protagonisti, è destinato a cambiare: così, nelle battute finali, Garcin pronuncia le seguenti parole:
Garcin: Tutti questi sguardi che mi divorano… (d’improvviso si volta) Oh siete soltanto due? Vi credevo molti di più. (Ride) È questo dunque l’inferno? Non lo avrei mai creduto. Vi ricordate il solfo, il rogo, la graticola… buffonate! Nessun bisogno di graticole; l’inferno sono gli altri.
«L’inferno sono gli altri»: cosa significa?
La frase, rimasta la più celebre del filosofo francese, è stata spesso erroneamente interpretata come esaltazione della misantropia più spiccatamente nichilista. Lo stesso Sartre, commentando A porte chiuse, evidenzia invece le chiavi di lettura insite in essa per meglio comprendere il passo:
Voglio dire che se i rapporti con gli altri sono contorti, viziati, allora l’altro non può essere che l’inferno. Perché? Perché gli altri sono, in fondo, quanto di più importante in noi stessi, per la nostra conoscenza di noi stessi. Quando pensiamo a noi, quando cerchiamo di conoscerci, in fondo usiamo la conoscenza che gli altri hanno già su di noi, giudichiamo noi stessi con le risorse donateci dagli altri per giudicarci.
Per la Weltanschaaung di Sartre, l’altro è dunque l’inferno poiché egli stesso è metro di misura di noi stessi. Ci guardiamo attraverso gli altri: ecco dunque spiegata l’importanza della simbologia dello specchio nel dramma. Quando Estelle lamenta difatti l’assenza di uno specchio, Inès si offre come tale:
Inès: Vuole che le faccia io da specchio? Venga, la invito qui, a casa mia. Sieda qui, sul mio divano. … Più vicina. Guardami negli occhi. Non ti ci vedi?
Estelle: Piccola piccola. Ma vedo molto male.
Inès: Io ti vedo, io. Tutta tutta. Domandami quello che vuoi, nessuno specchio ti risponderà più fedelmente.
Nel saggio filosofico L’essere e il nulla, Sartre d’altronde scriveva che ognuno esercita sull’altro lo sguardo di Medusa, attirandolo e decostruendolo nella sua essenza. Solo il “gruppo in fusione” ne costituisce via di scampo: un agglomerato paritario di individui, uniti contro un pericolo collettivo. Ma, in quanto a un comune rapporto concreto, Sartre non intravede barlumi di luce; almeno, non i medesimi che intravede Calvino ne Le città invisibili:
L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Pierluigi Patavini