Entrambe essenziali pulsioni, l’una costruens, tesa verso la conservazione e il processo creativo, l’altra destruens, tesa verso la decadenza e l’annichilimento: così Freud, nel suo indimenticabile saggio Al di là del principio di piacere (1920), trasporta i concetti di Eros e Thanatos (Amore e Morte) nel territorio psicanalitico, utilizzandoli, così come utilizza il mito, per meglio forgiare il linguaggio di una disciplina appena nascente.
Ebbene, le due entità, al tempo del filosofo di Freiberg, erano già imponente topos letterario che vantava una tradizione secolare, imperante nell’elegia classica e nella tragedia shakesperiana, nel poema epico e nelle canzoni popolari. A dimostrare la natura assolutamente inusuale di questo dualismo, le quali componenti non sono contrastanti, bensì tendenti alla consequenzialità o addirittura all’identità, ci siamo preoccupati di analizzarne alcune apparizioni notevoli, sotto quest’aspetto, nella storia della lirica italiana.
L’Eros logorante di Cavalcanti
Canto piacere, beninanza e riso
me’n son dogli’ e sospiri:
guardi ciascuno e miri
che Morte m’è nel viso già salita!
Alla poesia fiorentina degli albori, per il peso dell’opera dantesca, è solitamente associata l’immagine dell’amore inteso come caritas teologica, trascendente e sublimante. Ma per Cavalcanti, intento a «cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse» (così come lo descrive Boccaccio), Eros è legato all’immanenza, circoscritto allo spettro delle sensazioni terrene, e dunque Thanatos gli è più vicino di quanto potremmo essere portati a credere.
Suggestionato da quella letteratura che di Amore dettagliatamente analizza la sintomatologia, Cavalcanti scrive di un’esperienza amorosa che sfibra l’animo, mettendo caoticamente in moto gli «spiritelli» (per la medicina medievale presiedenti alle facoltà vitali dell’individuo) fino a una totale anarchia interiore.
Sul poeta, così dilaniato nelle viscere, aleggia di conseguenza la Morte, intesa anzitutto come morte spirituale. Così recita la sirma del sonetto Tu m’hai sì piena:
I’ vo come colui ch’è fuor di vita,
che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia
fatto di rame o di pietra o di legno,che si conduca sol per maestria
e porti ne lo core una ferita
che sia, com’egli è morto, aperto segno.
Thanatos è naturale esito di Eros, il quale, nella complessa ballata filosofica Donna me prega, è definito «accidente» nell’accezione aristotelica del termine, qualità transitoria, rapinosa nella sua potenza distruttiva (concezione, questa, mutuata dall’epicureismo):
Di sua potenza segue spesso morte,
se forte – la vertù fosse impedita,
la quale aita – la contraria via (…)
Quest’Eros devastante è il medesimo della bufera che trascina le anime di coloro «che la ragion sommettono al talento», nel celeberrimo (fin troppo!) canto V dell’Inferno di Dante. «Amor condusse noi ad una morte», afferma Francesca da Rimini: quell’Eros puramente impulsivo, sì, fa cenno a Thanatos, e per tale ragione chi ne viene pervaso è, per l’ideologia dantesca, condannato.
Eppure, cogliendo il riferimento testuale si comprende che, come afferma Contini, Cavalcanti ha «salato il sangue a Dante»; e non è un caso che sia la tragicità di quest’Amore “errato”, non propugnato dal Sommo Poeta, a costituire il momento più affascinante della Commedia.
Leopardi: i “fratelli” Eros e Thanatos
E pure certamente l’ amore e la morte sono le sole cose belle che ha il mondo, e le sole solissime degne di essere desiderate.
Prima di Amore e Morte, lirica centrale nel cosiddetto ciclo di Aspasia (scritto in occasione dell’infatuazione per Fanny Targioni Tozzetti), Leopardi aveva già maneggiato il topos: la sua Saffo, fedele alla leggenda e alla fonte ovidiana, trovava difatti nel suicidio l’unica panacea ad un amore non corrisposto, l’unico rimedio al dissidio tra lei stessa e la Natura.
È nel sopradetto ciclo poetico che la dicotomia viene tuttavia, alla luce delle riflessioni leopardiane sulla «caduta delle illusioni», rivista e reinventata. Per quanto l’atto del desiderare possa essere fallace (così come Leopardi stesso scrive nel suo Zibaldone), Eros e Thanatos vanno desiderati: è questa la prova di un intrinseco legame genetico tra i due.
Legame, ripetiamo, genetico: se Andrea Alciato, in uno dei suoi Emblemi (De Morte et Amore), immaginava i due come semplici amici che, dormendo assieme, si scambiano le frecce per errore, il pionerismo di Leopardi sta nell’instaurare tra i due un vero e proprio rapporto sanguigno. Così i primi versi di Amore e Morte:
Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte
ingenerò la sorte.
Cose quaggiù sì belle
altre il mondo non ha, non han le stelle.
Nasce dall’uno il bene,
nasce il piacer maggiore
che per lo mar dell’essere si trova;
l’altra ogni gran dolore,
ogni gran male annulla.
Entrambi, dunque, portatori di piacere, Amore per l’amplificazione delle sensazioni, Morte per la cessazione di esse. Quest’ultima, personificata, contro l’immaginario collettivo, come «Bellissima fanciulla / dolce a veder», si accompagna ad Amore stesso, ed è tanto presente quanto egli nelle vite degli uomini. Il loro potere è soverchiato solo dal Fato; ma la Morte, «dell’età reina», è il desiderio incessante di un Leopardi tormentato dal languore, che auspica di capitolare con la carezza soave della dissoluzione:
(…) solo aspettar sereno
quel dì ch’io pieghi addormentato il volto
nel tuo virgineo seno.
Pierluigi Patavini