Il filo unisce donne di tutto il mondo e diventa tradizione, cultura, arte manuale, eredità che si trasmette di madre in figlia, di nonna in nipote. Il ricamo e la tessitura hanno da sempre rappresentato arti manifatturiere legate al mondo femminile di tutti i tempi.
L’ “arte del filo” ha origini antichissime che risalgono al Neolitico e, con molta probabilità, sono nate in Oriente. Ricamare e tessere sono molto più che semplici pratiche ed attività femminili decorative; una volta erano fonte di guadagno e sostentamento familiare e, da un punto di vista antropologico, rispecchiano l’atavica necessità del raccontare e comunicare. Il filo diventa linguaggio!
Dal magico intreccio di filati colorati e trame complicate si da forma ad un tessuto che vive; ogni punto di ago sembra dare inizio ad una storia. Storie di donne che in qualche modo vogliono raccontarsi e raccontare. Il ricamo è un libro da scoprire, è esperienza soggettiva che diventa unicità.
Il filo nel ricamo del Sud Italia
La parola “ricamo” deriva dall’arabo “raqm” che significa “segno”. Il filo tessuto, ricamato o lavorato in qualsiasi modo e con ogni mezzo o strumento, è indizio di origini antiche e, agli occhi di chi ne ammira l’arte, apprezzandola, appaiono come opere di ingegno, bellezza ed impegno inimitabili e preziose. Dai territori Vesuviani a quelli Irpini, dell’intera Campania, e di molte altre regioni del Mezzogiorno, ci sono donne che coltivano ancora usanze e tradizioni legate al “filo”, (non solo anziane signore e non solo donne), in particolare: il ricamo, il merletto ed il tombolo, che in molti paesi partenopei vantano un rinomato artigianato.
In zone come Somma Vesuviana o Sant’Anastasia è facile trovare ancora vecchiette che, prima di mettersi all’ opera, pregano e cantano da sole o in gruppo, come se quella speciale energia creativa le avvicinasse al divino ed insieme, unite dalla passione per il filo, strette nella condivisione corale, si pongono come obiettivo comune: la creazione che sgorga dalle loro mani laboriose. Manufatti artigianali diventano vere e proprie opere d’arte.
Nel Sud, l’arte del filo, da quello di cotone a quello di lana, dall’uncinetto al lavoro a maglia, dal tombolo al cucito al telaio, diventano orgoglio del lavoro a mano femminile. In Campania, si diffuse inizialmente per decorazione di abiti sacri; presso le corti dei nobili, a partire dall’epoca di Giovanna D’Aragona, le cd. “merlettaie” lavoravano per realizzare capolavori di alta qualità.
Successivamente, in molti paesi dell’Irpinia e nel Salernitano si sviluppò questa forma di artigianato, basti pensare a paesi come: Santa Paolina, Montefusco, Battipaglia, Positano, Pozzuoli (dove nel 2011 è sorta l’associazione “Tombolo napoletano”), Ischia (famosa per i cestini merlettati), Calitri (Avellino), Mercato San Severino, Gallo Matese (Caserta), Altavilla Irpina (Benevento) etc… fino ad arrivare a veri e propri musei del filo!
Questa tradizione si conserva da generazioni; da Occidente ad Oriente, l’arte del filo si potrebbe tradurre come una sorta di “meditazione gestualizzata”, in quanto l’intento della persona che crea si proietta nell’ oggetto e, plasmando la realtà come un platonico demiurgo, conserva intatta la memoria del passato. Se nel Meridione troviamo molti riferimenti al filo e all’ attività del filare, questi non mancano in popoli e civiltà di culture differenti.
Un esempio è il Messico dove, presso le popolazioni Huichol e tra gli indiani Lakota e Navajo, è diffusa la pratica dell’ “ Ojos de Dios”: oggetti-portafortuna, talismani di protezione che vengono realizzati con varie tecniche, tra cui il filo.
Di colori svariati e vivacissimi, vengono utilizzati come una specie di protezione divina per attirare la “buena suerte” e la benevolenza degli spiriti e della Natura. Sono metafora di contatto tra divino e terreno, e sono tipicamente realizzati con due legnetti-base che formano una croce, intorno ai quali si intrecciano, si tessono o si fasciano vari strati di filato, scegliendo la forma che si vuole, con filo di materiale, colore, e nell’ordine che si preferisce.
Si parte dal centro verso l’esterno, fino ad ottenere non solo un oggetto-simbolo, ma anche molto bello da vedere. Manufatti simili, per forma e significato, li ritroviamo anche in Tibet, dove assumono il nome di “mandala” fatti di sabbia, carta, elementi naturali e riproducono disegni legati al cosmo.
Il mandala
Il mandala è il Centro. E’ l’espressione di tutte le vie”. C.G. Jung
“Mandala” deriva dal sanscrito e significa “essenza” o “cerchio”, “circonferenza”, “ciclo”; o dal tibetano “dkyil” “khor” che sono parole associate alla cultura Veda. La costruzione del mandala è mirata ad una crescita interiore, ha fini terapeutici oltre che essere parte della tradizione di un popolo e va aldilà del fine estetico della bellezza del manufatto.
Si dice che fare un mandala, sia pur soltanto colorandone il disegno o anche componendolo con filo, centralizzi la persona sulla propria essenza, mettendola in contatto con la parte più profonda del sé e, per questo, utilizzato anche in alcuni esercizi psicoterapeutici. La persona pienamente concentrata sul mandala canalizza l’energia che le ritornerebbe in benessere psico-fisico.
Questo ci ricollega un po’ all’arte del merletto della tradizione italiana meridionale, dove il mandala è possibile riscontrarlo nei “centrini” tipici, spesso realizzati all’ uncinetto e che rievocano molto le forme dei mandala tibetani e dei “rangoli” e “yantra” indiani, presenti anche nel Buddhismo ed Induismo.
Il disegno del mandala compare in varie epoche e contesti storico-culturali: il più antico è una “ruota solare” del Paleolitico in Africa; se ne trovano poi, di stampo Cristiano, nel Medioevo come quelli che raffigurano Cristo al centro con intorno i quattro evangelisti; oppure riferimenti ci sono anche nei rosoni circolari di alcune chiese. Strutture labirintiche le notiamo, inoltre, in siti etruschi e romani e nella circolarità di molti oggetti presenti in natura: frutta, pietre (disposizione di Stonehege) , fiori, alberi etc… fino a pensare al girotondo dei bimbi, alla sfericità dei pianeti, alla rotondità di una donna in gravidanza, ed arrivare a vere e proprie danze del mandala.
Costruire un mandala rilassa, riduce l’ansia, favorisce concentrazione, memoria e pazienza, conferisce benessere individuale e relazionale, porta ad una maggiore accettazione di sé, aiuta a trovare equilibrio, stimola forza ed energia ed è un viaggio di perfezionamento verso il “cerchio”, ci aiuta a dialogare in termini emozionali. Le strutture basilari di un mandala possono essere di quattro tipi: centro con circonferenza (maschile e femminile insieme); labirinto (sentiero esistenziale per ritrovarci); radiale (le possibilità infinite di cui disponiamo); a croce (orientamento su quattro punti cardinali). Secondo i tibetani, si compone poi di cinque elementi: terra a cui corrisponde il colore giallo, simbolo di fermezza e diretto ad ovest; acqua, colore bianco, flessibilità, a nord; fuoco, rosso, esprime la vitalità e rappresenta il sud; aria, colore verde, è la comunicazione e rappresenta l’ est; infine lo spazio che è il blu e sta per la libertà ed è il centro.
Il filo, a questo punto, diviene sinonimo di saggezza femminile che vede in ogni donna una saggia Penelope e che lega in se la donna di oggi a quella di ieri. La tessitura vista in modo omerico: come l’arte antica da opporre alla guerra e percorso di creatività che conduce all’ armonia.
Pasqualina Giusto
Sitografia: