Il nome di Giovanni Verga, nella mente di studenti e non solo, è indissolubilmente legato al suo romanzo più famoso, i Malavoglia, e alle novelle che si leggono in tutte le scuole (Rosso Malpelo, La Roba, La Lupa). Capita spesso che gli autori di cui più si parla a scuola diventino poi, chiusi i libri del liceo e dedicatisi ad altri studi o stimoli letterari, quelli di cui si ha un’idea più imprecisa e parziale. Nel caso di Verga, ad esempio, quasi mai si fa riferimento al suo rapporto con la storia contemporanea e alla sua delusione nei confronti del Risorgimento. Dedichiamoci quindi, per il tempo di un articolo, ad un tema estremamente importante nell’opera di Verga: la rivisitazione dei suoi miti di gioventù e la critica alla storia.
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Libertà: il carnevale furibondo di Bronte
Il primo racconto che prenderemo in esame, “Libertà“, è contenuto nella raccolta Novelle Rusticane; fu pubblicato inizialmente sulla “domenica letteraria” nel 1882 e in seguito inserito nella raccolta.
L’evento che Verga descrive nella novella è storicamente avvenuto. Si tratta dei cosiddetti “fatti di Bronte“: nell’agosto del 1860, nell’omonima cittadina ai piedi dell’Etna, i contadini diedero il via ad una sanguinosa rivolta popolare contro i galantuomini proprietari delle terre che essi lavoravano; per placare la sommossa, le truppe garibaldine di Nino Bixio fecero giustizia sommaria e cinque brontesi furono condannati a morte e fucilati.
In linea con la poetica verista già messa in pratica nelle novelle precedenti e nei Malavoglia, Verga narratore scompare, o meglio si eclissa; ciò che traspare dalle sue parole, però, è estremamente chiaro. La rivolta in nome della libertà, una libertà che è parola vuota e insignificante, è nient’altro che un carnevale furibondo: coloro che la mettono in pratica sono come ubriachi del sangue dei nobili e dei proprietari terrieri che stanno uccidendo.
E come la sbronza il giorno dopo è già passata, lasciando soltanto un mal di testa indesiderato, così la rivolta ben presto si conclude e solo lo sgradevole processo, durato tre anni, resta a testimoniare l’avvenuto; come il carnevale costituisce un giorno in cui i vincoli sociali sono ignorati e sovvertiti, allo stesso modo il furibondo carnevale di Bronte rovescia lo status quo per un breve momento, salvo poi tornare al punto di partenza.
Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini.
Mastro Don Gesualdo: la farsa della Carboneria
Una premessa: Mastro Don Gesualdo è ambientato in epoca risorgimentale, dunque prima della spedizione dei mille e del sanguinoso moto di Bronte. Non solo: esso è antecedente anche ai fatti raccontati nei Malavoglia. Perché allora analizzarlo per secondo? Allarghiamo il campo d’azione della nostra domanda: perché Mastro Don Gesualdo, secondo libro del mai concluso “ciclo dei vinti”, è ambientato in un’epoca precedente rispetto al “primo capitolo” della serie, i Malavoglia?
Possiamo rispondere inserendo il romanzo nel nostro discorso sul Verga critico e disilluso. Con la sua scrittura egli intendeva tornare indietro, ripensare e riscrivere la storia del risorgimento così come Verga lo percepiva in retrospettiva: una farsa.
Mastro Don Gesualdo, protagonista del romanzo, incarna lo spirito dell’imprenditore moderno, il parvenu in grado di “farsi da sé” (self-made-man all’inglese). Quest’uomo così spregiudicato in ambito economico serve a Verga per farsi beffa di quegli uomini che, un cinquantennio prima rispetto alla stesura del romanzo (risalente all’1888-89), erano stati i portatori dei valori risorgimentali. Gesualdo decide infatti di partecipare ad una congiura carbonara che si sta organizzando a Vizzini, ma i suoi scopi sono mossi da tutt’altro che la volontà di modificare una situazione ingiusta: egli è il lucido protagonista della conservazione sotto la maschera della rivoluzione [1].
La congiura carbonara è ridotta a una commedia degli equivoci in cui non mancano gli scambi di ruolo (Gesualdo si veste da prete, il canonico che l’ha coinvolto è abbigliato da pecoraio) e gli espedienti da romanzo gotico, tra cantine buie e congiurati imbacuccati. Soprattutto, Verga non descrive il contenuto dell’incontro tra i carbonari: si passa immediatamente dalla descrizione dell’ingresso, con tutta la gestualità rituale che esso implica, a quella dell’uscita, come se la riunione stessa non avesse alcuna importanza.
Senza neppure uno strappo alla regola dell’impersonalità verista, traspare tutto il risentimento e la critica di Verga verso quella borghesia affaristica che aveva violato i suoi ideali giovanili (ricordiamo che uno dei suoi primi testi, imbevuto di patriottismo, fu i Carbonari della montagna).
Verga, antesignano dell’antistoricismo
Il tema comune ai due testi di Verga, la novella e il romanzo, sarà poi ripreso da altri tre grandi autori italiani: De Roberto, Pirandello e Tomasi di Lampedusa, rispettivamente autori de i Vicerè, I vecchi e i giovani e Il gattopardo. Si tratta del passaggio dal regime assolutistico al liberalismo borghese in Sicilia: una vittoria apparente, ma un sostanziale fallimento secondo questi tre autori.
Vittorio Spinazzola ha coniato, per queste opere, l’espressione “romanzo antistorico“: con le dovute differenze tra i vari autori, già in Verga notiamo che la storia stessa viene posta sotto accusa, perché concepita come un movimento insensato che cambia la forma, i protagonisti degli eventi, ma mai il contenuto sostanziale della situazione storica.
È stato persino coniato un termine, “gattopardismo”: esso che descrive un atteggiamento politico affine al trasformismo, che prevede l’adattarsi abilmente al cambiamento e il farsene promotore per manipolare i fatti e mantenerne invariata la sostanza.
Un settantennio dopo il lavoro di Verga, Tomasi di Lampedusa farà così riassumere la situazione a Tancredi, nipote del principe di Salina:
Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.
Maria Fiorella Suozzo
Fonti
Libertà, Giovanni Verga
Mastro-don Gesualdo, Giovanni Verga, Einaudi (la nota [1] cita il commento di Giancarlo Mazzacurati)
La letteratura, Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria
sitografia:
Matteo Palumbo, « Verga e le radici malate del Risorgimento », Italies [Online], 15 | 2011, online dal 31 dicembre 2013, consultato il 31 ottobre 2015. URL : http://italies.revues.org/3042
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