La chiesa di Donnaregina Vecchia è un luogo estremamente suggestivo ed affascinante. Si tratta di un complesso monastico ubicato alle spalle della chiesa di Maria Donnaregina Nuova nel 600. La struttura è menzionata dalle fonti a partire del 750 come complesso monastico collocato presso le mura cittadine di San Pietro al Monte di Domina Regina.
Il monastero di Donnaregina ospitò monache italo-greche, basiliane, benedettine e nel XIII secolo anche le francescane. Il complesso, divenuto prigione sotto Carlo I d’Angiò, fu danneggiato da un violento terremoto nel 1263 e fu ricostruito attraverso le donazioni generose della regina di Napoli Maria d’Ungheria tra il 1307 e il 1316. La Chiesa ha una facies gotica molto sobria e al tempo stesso imponente. L’interno è caratterizzato da una navata unica con tre campate e un’abside poligonale finale.
È un gioiello architettonico ed è anche uno scrigno prezioso per ciò che custodisce. Oltre al monumento funebre di Maria d’Ungheria realizzato da Tino di Camaino, il coro della chiesa è degno di essere studiato. Soffermiamoci su questo spazio.
Costruito nel XIV secolo con la chiesa in stile gotico, in posizione sopraelevata rispetto alla navata, il coro delle monache è raggiungibile subito dopo l’ingresso in chiesa tramite una scala che permette di raggiungere il primo piano del convento. Il vano è dotato di un’ampia sala con soffitto a cassettoni, un pregevole sedili lignei intagliati e affreschi trecenteschi alle pareti. Il pregevole cassettonato, l’unico superstite tra quelli napoletani eseguiti nel gusto del primo Rinascimento tagliò anche l’oculo, come può ben rilevarsi dalla sezione longitudinale.
Vita di Pietro Cavallini
Chi è l’artefice? La situazione è molto controversa. Parte della critica considera che l’ artista sia di Pietro Cavallini. Questi nacque a Roma nel 1240 e morì nel 1330.
Grazie all’Aretino sappiamo che Pietro Cavallini Romano, perfettissimo maestro di musaico, la quale arte insieme con la pittura apprese da Giotto. Al Cavallini il Vasari concesse un catalogo di opere ancora più vasto: oltre alle opere romane aggiunse degli interventi a Firenze, Assisi, Orvieto che appartengono a trecentisti di diversa estrazione.
Cavallini, oltre a lavorare nella sua città natale, ha lasciato capolavori anche a Napoli, dove lavorò nell’anno 1308. Pietro Cavallini era a Napoli, vi teneva in affitto una casa e vi lavorava a servizio del Re. L’attività napoletana del pittore deve essere stata vasta e intensa e probabilmente gli Angioini stipularono un contratto lavorativo di notevole rilievo.
Nella Chiesa di Donnaregina il pictor romanus non lavora da solo ma insieme alla sua scuola dipinge sulla controfacciata il Giudizio universale, gli Apostoli e i Profeti nella parte superiore del presbiterio. Cavallini coordinò certamente i lavori della sua equipe.
La parete di fondo vede un’Apocalisse divisa da due monofore in tre scomparti: sul lato sinistro, verso la porta d’ingresso al convento, il Paradiso, al centro il Giudizio Universale ed a destra l’Inferno. Le scene affrescate sulla parete orientale si sviluppano con sedici Scene della vita di Cristo, quattro Scene della vita di santa Elisabetta più altre dodici figure tra Santi ed Apostoli. La parete occidentale vede quattro Scene della vita di santa Caterina, sei Scene della vita di Sant’Agnese più altri quattro tra Apostoli ed Adorazioni dei Magi.
L’impresa fu portata a termine tra il 1317 e il 1318, nella quale è però molto difficile le parti in cui il maestro intervenne personalmente. Recentemente parte della decorazione è stata attribuita a Filippo Rusuti, mentre a un non meglio identificato Maestro delle Storie di S. Elisabetta sarebbero da ascrivere gli episodi raffiguranti la vita della santa.
La decorazione si articola su tre registri, con a sinistra il Paradiso, al centro il Giudizio Universale ed a destra l’Inferno, tutti questi cicli a loro volta sviluppati in scene orizzontali che scorrono dall’alto verso il basso. Certa è l’attribuzione a Cavallini della rappresentazione di San Tommaso.
Si riconosce la mano di Cavallini per come distese, sulle pareti del coro e sulla facciata, colori scelti che si integrano con la architettura. L’illuminazione del viso il Cavallini fu principalmente imitato dagli autori delle tavole di Monaco, di Perugia e di Urbino. Osservando le teste si nota che Cavallini traeva spesso l’ispirazione dalle statue antiche, ma anche perchè segna nei volti forti contrasti fra luce e ombra, chiaroscuri trattati in modo più moderno rispetto a come soleva fare Giotto.
Per molto tempo il nome di Cavallini è stato oscurato dal primato artistico di Giotto, ma il duello deve placarsi per rendersi conto di quanto l’arte del pittore romano sia legata certamente a Giotto, ma anche ad un linguaggio medievale e bizantino. Dunque ha ragione Dario Fo: Cavallini merita di più.
Serena Raimondi