Non solo la tragedia di Macbeth è nota a, se non tutti, davvero molti, e molti l’hanno portata sullo schermo (Orson Welles, Akira Kurosawa, Roman Polanski…). Ma teniamo anche presente che parliamo di una delle più grandi opere dell’autore il quale, a detta di Harold Bloom, “è sempre più avanti, sul piano tanto concettuale quanto immaginario. Vi rende anacronistici perché vi contiene; contenerlo è impossibile. Non si può illuminarlo con una nuova dottrina, sia essa il marxismo o il freudismo o lo scetticismo linguistico demaniano. Al contrario, sarà Shakespeare a illuminare la dottrina, non mediante una prefigurazione ma, per così dire, mediante una postfigurazione”. [1]
L’impresa del semisconosciuto Justin Kurzel è insomma sfacciata, folle.
I Macbeth, re e regina
Come orgogliosamente riportato qui e là, il Telegraph ha scritto che Michael Fassbender è nato per il ruolo di Macbeth: posizione condivisibile. È assoluta e magnetica, indispensabile, la sua intesa con Marion Cotillard, lady Macbeth. Entrambi rubano lo sguardo con la loro bellezza, in un’interpretazione che toglie il fiato.
Così forte lei, senza paura di suggerire l’omicidio né di dirgli basta per dimenticarsene, salda finché sa di essere la colonna portante di suo marito, e finita in pezzi quando anche lui, dopo suo figlio, le sfugge dalle mani; tanto più gracile lui sotto i colpi inferti dalla propria azione le cui conseguenze non riesce ad arginare – perché è ormai cancellato tutto ciò che lo definiva: onore e lealtà – e maledetto da una profezia che decide di far avverare.
Torbido e nebbioso
Se anche non si avesse avuto sentore dell’estetica di cui Justin Kurzel ha vestito “Macbeth” tramite poster e trailer, poche inquadrature iniziali sono sufficienti a lasciar intuire quanto alta è la voce della fotografia, dei paesaggi e della regia. Questi elementi, ergendosi quasi ad astrazione di se stessi, hanno diritto di parola al pari delle voci umane, e concorrono con esse a dare un’austera proiezione del più torbido testo shakespeariano, cupa e pulitissima all’orecchio per la solennità della colonna sonora.
La Scozia domina, dura, verde e rossa sotto l’aria plumbea. Tutto all’esterno è velato dalla polvere alzata dalla battaglia, dalla nebbia o dal fumo cremisi di un incendio. E gli interni sono così nitidi da far percepire le fibre di una stoffa e l’odore di una stanza.
Il tempo è metodicamente scansionato, all’inizio così lento, melmoso e impregnato di marciume: ogni passo in avanti solleva il peso di un macigno, un minuto sa essere un’eternità perché comporta l’omicidio e il tradimento.
Justin Kurzel non ha timore di farsi meditabondo e lento affinché un gesto lasci dispiegare dietro di sé tutte le sue implicazioni, o affinché si posi uno sguardo nel definirsi di un proposito. Sa scuotersi e accelerare quando la pazzia di Macbeth, che con il fuoco pian piano tinge di rosso il cielo e l’aria, è senza freni ed insaziabile, furiosa nell’ultima battaglia. Ed è suggestivo l’alternarsi della monolitica inquadratura che cattura la dilatazione di un attimo con la febbricitante assecondazione dell’agitarsi dei personaggi.
Seppur non necessario, non così rivoluzionario da segnare una nuova tappa nelle trasposizioni dal Bardo di Stratford-upon-Avon, “Macbeth” è un film lacerante ed esteticamente intenso, che si ribella all’ordinaria rappresentazione di Shakespeare nella stessa misura in cui da esso trae vita e sostegno.
Chiara Orefice
[1] Il Canone occidentale, Harold Bloom, BUR Rizzoli, Milano, 1994