Revenant, diretto dal premio Oscar Alejandro González Iñárritu, dopo aver trionfato alla cerimonia dei Golden Globes 2016 (come miglior regia, miglior film drammatico e miglior attore in un film drammatico) ottiene ben 12 candidature ai premi Oscar 2016.
La storia è parzialmente ispirata alla vita del cacciatore di pelli Hugh Glass il quale, nel 1823, durante una spedizione nei territori dell’attuale Missouri, riesce a sopravvivere senza né armi né viveri nonostante fosse stato abbandonato in fin di vita dai suoi compagni.
Le difficoltà tecniche per la produzione
Il film è stato girato principalmente nella Columbia Britannica utilizzando interamente la luce naturale e senza l’utilizzo della CGI, ciò inevitabilmente ha comportato delle grosse difficoltà innanzitutto nel rispetto delle tempistiche:
«[…] giriamo davvero per poche ore al giorno. Ma è stato chiaro fin dall’inizio che avremmo avuto piccoli momenti preziosi un po’ alla volta: era tutto programmato. Questo non solo per creare più intensità, ma anche per le condizioni climatiche. Stiamo girando in paesaggi così remoti che per raggiungerli impieghiamo il 40% della giornata. Quei posti, però, sono così meravigliosi e potenti che sembrano immacolati, mai toccati dall’uomo, ed è ciò che ho sempre voluto.»1
Ma uno dei più grossi ostacoli da superare sono state le condizioni ambientali:
«Stiamo lavorando molto in esterno con la luce naturale […] la temperatura è scesa fino a -30°, e abbiamo avuto delle difficoltà con le attrezzature. Ad un certo punto è diventato così freddo che i nostri schermi si sono bloccati.»2
Nell’ottobre del 2015 a Wired Leonardo DiCaprio ha raccontato che per le riprese ha dovuto indossare una pelliccia d’alce e una di orso pesanti 45 chili e ha rischiato più volte l’ipotermia.
Revenant, tornare in vita
Revenant è un film oggettivamente ricco e potente, sono 156 minuti di godimento visivo in cui la bravura di DiCaprio e di Iñárritu (nonché del direttore della fotografia!) ci viene costantemente spiattellata in faccia (a qualcuno potrebbe anche risultare fastidiosa tale consapevolezza).
Il punto di partenza è di certo quello che, diversamente da molti altri film ambientati in territori quasi incontaminati, la natura non è vista in senso contemplativo ma diventa funzionale. Ha di certo una potenza devastante (la foresta è spesso inquadrata dal basso), l’uomo deve rispettarla e adeguarsi ad essa, ma allo stesso tempo se ne deve servire per sopravvivere. Essenzialmente viene messa in scena la visione che ha un cacciatore della natura.
Glass risorge («Non ho più paura di morire. Sono già morto una volta.»); diventa qualcos’altro (un ibrido uomo-orso) e comincia a comportarsi e a ragionare proprio come un animale selvaggio di quelle foreste perché è l’unico modo che ha per salvarsi e per soddisfare la propria sete di vendetta (letteralmente fiuta e mette in trappola la sua vittima).
«Lui ha paura, sa quanta strada ho fatto per trovarlo.»
In questo percorso di ri-nascita la macchina da presa non si è mai fatta da parte. Iñárritu decide volontariamente di rinunciare ai canoni del cinema classico facendosi “sentire” continuamente. Il film comincia con uno spettacolare piano-sequenza che ci preannuncia ciò che sarà tutto il film annullando, di fatto, l’ipotetica cronologicità perfetta. La m.d.p., poi, ben presto si ritrova impegnata a seguire e a letteralmente danzare con i protagonisti che tentano di salvarsi da un attacco da parte degli indiani Ree. L’obiettivo di Iñárritu è chiaro: lo spettatore non deve calarsi nella vicenda, a noi deve essere sempre ben chiara la presenza di una “parete” che ci allontana, ci separa, da Glass. La parete è proprio il vetro (glass) dell’obiettivo della telecamera che si appanna, si sporca di schizzi di sangue e di acqua ed è proprio con uno sguardo fisso di DiCaprio in camera, alla fine del film che gli schemi narrativi classici si sono definitivamente rotti, allo spettatore è stato impedito di prendere parte alla finzione (o alla troppa realtà che ha caratterizzato l’intero film?).
Ma cosa spinge i protagonisti a comportarsi in un determinato modo? Qual è il motore della loro anima?
L’Amore, senz’altro.
L’Amore è, ancora una volta, la misura di tutte le cose.
In un mondo in cui di lì a poco (nel 1882 viene pubblicata la prima versione de La Gaia Scienza di Nietzsche) verrà urlata la sentenza «Dio è morto. […] E noi lo abbiamo ucciso.» non può essere difficile credere a tutto ciò a cui abbiamo assistito; l’uomo ha perso (o meglio, ha ucciso) il suo punto di riferimento e adesso non ha valori con cui misurare il mondo se non sé stesso.
Dio è morto e l’uomo ancora non se ne rende conto, continua a credere che quelle pratiche di venerazione (Faccio riferimento al culto dei morti a cui viene data molta importanza dalla gran parte dei protagonisti del film. Glass, invece, non si preoccupa di dare una degna sepoltura al figlio tanto amato. Lui ha già rovesciato i suoi valori.) dal sapore necrofilo possano assicurargli la beatitudine ultraterrena.
Come abbiamo già accennato, per Glass i valori si sono già rovesciati. Nel percorso di ri-nascita comincia a rendersi conto che l’unico metro di misurazione di tutte le cose è l’Amore, l’Amore è l’unico collante della società e non l’appartenenza o meno a un particolare status religioso, sociale o economico.
“Siamo tutti selvaggi” è la scritta che ritrova al collo del suo compagno di viaggio indiano, impiccato (essendo considerato inferiore non ha forse il diritto di morire con un regolare spargimento di sangue, come gli antichi greci credevano che dovesse morire un guerriero) da un gruppo di cacciatori francesi. Ma cosa significa essere selvaggi? Non vivere seguendo i canoni della cultura classica o non avere alcuno scrupolo a rapire e a stuprare una ragazza indiana?
Per quanto Revenant possa apparire (ma solo se ci fermiamo allo strato più superficiale) come un semplice esercizio di stile o come il riflesso dell’ego smisurato del regista, non può assolutamente essere ridotto a questo.
Il film, per tutti i 156 minuti, è carico di elementi di riflessione, di analisi sia etica che estetica e c’è (fin dall’incipit) attenzione a quello che è il doloroso universo visionario del protagonista.
Cira Pinto
1Lorenzo Pedrazzi, The Revenant – Iñárritu spiega perché sono necessari nove mesi per completare le riprese.
2Marlen Vazzoler, Il direttore della fotografia di Birdman, Emmanuel Lubezki parla della riprese di The Revenant a -30°.
Interessante galleria dedicata alla scenografia del film: http://www.architecturaldigest.com/gallery/revenant-set-design