David O. Russell non cambia squadra: Jennifer Lawrence, Bradley Cooper e Robert De Niro arrivano in sala con l’allegrotto, inneggiante alla speranza, vivace “Joy” (2015) – accompagnato poi dalla solita nomination per la Lawrence.
Joy, Rudy, Neil, Tony
Si tratta di un film su una donna forte in un mondo di uomini: Jennifer Lawrence è Joy Mangano, e gli uomini in questione sono tre, i portavoce dei tre lati della vita della giovane.
Neil (Bradley Cooper) è l’imprenditore, rappresenta il mondo degli affari, nei panni del rivale come dell’amico. Rudy Mangano (Robert De Niro) è il padre, la famiglia che Joy non ha scelto e che l’ha generata, l’ancora pesantissima che la trascina verso il fondo. Tony (Édgar Ramírez), infine, è l’ex-marito, è la famiglia che invece lei stessa ha creato, protesa verso il futuro.
Tutti e tre i maschi vengono delineati molto bene nella prima metà della pellicola, stagliandosi come importanti fari nella vita della giovane donna, per poi perdere pian piano spessore, adagiandosi sul fondo e lasciando spazio alla forza straordinaria e prepotente del personaggio femminile.
A Joy però mancano le rughe: Jennifer Lawrence, da venticinquenne, deve interpretare la donna che, dopo un divorzio, due figli e anni di famiglia disastrata sulle spalle, si suppone sia invecchiata. Amare lealmente la sua attrice-feticcio, forse, costringe David O. Russell a sacrificare la credibilità delle sue protagoniste. A parte questo, la Lawrence rimane l’artista di talento che ha sempre dimostrato di essere: nonostante l’aspetto, lo sguardo è quello credibile della stanca ma combattiva donna abituata a cavarsela.
Soggetto e regia
Così come aveva già firmato le sceneggiature de “Il lato positivo – Silver Linings Playbook” (2012) e di “American Hustle – L’apparenza inganna” (2013), così David O. Russell firma anche la sceneggiatura di “Joy”.
La “poetica” del regista, se così vogliamo chiamarla, rimane immutata: si tratta di storie che, se calate in contesto reale, risulterebbero di una tragicità disarmante, colorata di toni squallidi e di una quotidianità anonima e sperduta in una qualunque casetta di una qualunque città. Trattare vicende di questo tipo con leggerezza sarebbe forse indelicato, persino politicamente scorretto, e la strategia di Russell è lontana mille miglia dal dirigere film pruriginosi.
Quindi l’angoscia rimane intonsa: massimo rispetto per la difficile vita dell’uomo medio che lotta contro l’ostilità del mondo. Il personaggio di Joy è quello della lavoratrice che, dotata di cervello e di iniziativa, è però oppressa da una situazione familiare ed economica soffocante.
Si tratta tuttavia di una commedia. Nemmeno per un attimo si sospetta che il finale non sia lieto.
E la regia è fluida, dai movimenti chiari, lenti e piacevoli, giocata sulla dicotomia di due palcoscenici: quello ripreso a telecamera fissa di una telenovela, e quello rotante composto di molti set di un canale di televendite, a rappresentare una situazione stagnante e una in movimento. Tutto è posto sotto una luce morbida, tutto è nitido, né troppo squillante né smorto, ma posto elegantemente nel mezzo.
“Joy” è una pellicola davvero molto facile da recepire e assimilare, anche troppo. Vuole avere una morale, ma vuole anche vincere facile: ed ecco allora il “non farti picchiare dal mondo, sii tenace e pieno di amore, sempre”. Non si corrono grandi rischi, così.
Aggiungiamo al tutto, poi, l’aver scelto come soggetto la storia dell’inventrice di un oggetto “poco nobile” come il Miracle Mop e l’averne fatto un film dolce, lineare, dalle forme accoglienti: questa è la ricetta di un film creato solo per piacere.
Chiara Orefice