Giorgia Palombi è una sorpresa.
Credi di aver capito il suo carattere,e improvvisamente sgretola le tue certezze lasciando scoprire, seppur con difficoltà, un pezzetto di sé. Regista e attrice romana, laureatasi a Napoli in psicologia clinica, ha costruito il suo percorso artistico nella capitale, formandosi con registi storici del teatro sperimentale quali Mario Ricci , Caterina Merlino, Giuliano Vasilicò, avvicinandosi al metodo Strasberg con la stessa Susan Strasberg e Francesca De Sapio dell’ Actors Studios di New York, e lavorando con Christine Cibils del Living Theatre.
Chi era Giorgia Palombi in tempi non sospetti?
Da sempre ho studiato per diventare attrice. Concluso il liceo classico, ho intrapreso gli studi attoriali con diversi maestri per poi debuttare a ventidue anni nel “Macbeth” di Mario Ricci, regista e maestro negli anni ’60 e ’70 del teatro immagine, ; cercava di sposare la grande tradizione del teatro con la sperimentazione esplosa in Italia in quegli anni.
Il tuo percorso quindi è di stampo sperimentale.
Studiando a Roma i primi anni, ho incontrato Carla Bizzarri con cui ho curato la voce, Mario Sesti che introduceva al grande cinema, ho incontrato Susan Strasberg in una stage di metodo Strasberg, con la De Sapio e Christine Cibils del Living Theatre,quindi sì, il mio percorso più che accademico, è laboratoriale.
Quando è avvenuto l’imprinting con la recitazione?
Avevo capito di voler intraprendere una vita artistica durante il liceo. La scuola mi dava sempre l’impressione di “schiacciamento”, di impossibilità di intraprendere un’indagine personale. Frequentando poi il Visconti, uno dei licei classici più famosi di Roma, ho sempre avuto insegnanti che cercavano di uniformare il mio pensiero a quello accademico. Ed io avevo sempre l’impressione di essere costretta e forzata, non riuscendo ad adeguarmi; di fatti il mio rendimento andava man mano calando. C’era quindi, inesaudito, il desiderio di far conoscere il mio punto di vista, e trovare uno spazio per esprimerlo. Il teatro è sempre stato una possibilità, non avendo altre doti dal punto di vista artistico. E’ stato un percorso naturale, che man mano è cresciuto.
Un evento che ha marcato la tua vita.
Il trasferimento a Napoli. È un percorso anomalo, il passaggio di solito lo si fa da Sud verso Nord. Mi sono trasferita a Napoli per motivi personali ed è stata dura. Napoli ha una cultura profondamente radicata nella sua lingua, e i contatti che avevo a Roma erano legati ad un teatro romano. Ho dovuto perciò ricominciare da capo, promuovere da me i miei progetti fino all’incontro folgorante con il carcere femminile di Pozzuoli, che ha cambiato tutto, anche il mio percorso attoriale,, indirizzandolo verso la regia. Per potermi fare largo …
Quali sono le sue sfumature, umane e professionali, del lavoro in carcere?
Ricordo che partecipando al Napoli Teatro Festival, il direttore di allora mi consigliò di non citare continuamente il percorso in carcere, perché avrebbe “potuto marcarmi”. Ma io ero già marcata a fuoco. La mia vera identità professionale parte da lì. Una riformazione fondata su una completa povertà di mezzi, di un’essenzialità scarna, scaturita dall’incontro delle idee che spietatamente si misuravano con la realtà della reclusione. Non esisteva uno spazio. Esistevano le detenute, alcune alfabetizzate, altre no. Anche chi aveva ricevuto un’istruzione scolastica e aveva accettato la mia presenza, non aveva idea di cosa fosse il teatro. È nato un forte interesse e un profondo rapporto quando la mia presenza nell’istituto divenne una certezza quotidiana. Se non nasce una speranza di miglioramento, nessuna fiducia è possibile, nulla si concretizza.
Vivere i personaggi e i loro aspetti negativi e positivi, aiuta a capire sé stessi o confonde maggiormente?
Il teatro è un cammino. Ed è un mestiere di cui si devono acquisire gli strumenti, corpo, voce, sensibilità e intelligenza; bisogna sviluppare una relazione con sé stessi e con gli altri. Altrimenti ci si perde in un mondo di ripetizione e rappresentazione. Se si è interessati ad un’esperienza reale, si ricerca la verità. Se non c’è una domanda autentica che guida l’opera , ci si confonde inevitabilmente. L’importante è non soltanto scoprire sé stessi ma circondarsi anche di persone adatte a noi, che non ci incastrino in un sistema.
Napoli.
Napoli è luce. È grande energia, è pura, è mare. Allo stesso tempo è grande abbandono, combattimento, dispersione… E’ una grande maestra. È una città in cui è ancora tutto sulla pelle. È la più vivace di Italia, piena di grandi bellezze, anche se offre poche possibilità di lavoro. La gente è partecipe, sensibile ed intelligente, di grande umanità. Questo è il positivo. Per il negativo …guardatevi intorno! La preferisco a Roma, anche se mette a dura prova.
Progetti futuri
L’ultimo progetto affiora da anni di pratica e da una domanda :”Cosa ne facciamo della poesia che mi ha accompagnato tutti questi anni?” Dopo varie esperienze, quali lo spettacolo su Emily Dickinson, e le performance, come O mia poesia salvami e altri testi poetici tratti dal Magnificat di Alda Merini, o il recital sulla poetessa Gabriela Amistral, nasce il desiderio di aprire per la poesia uno spazio in cui chiunque potesse partecipare senza filtri. Orse Minori – Poetesse sul piccolo carro, progetto dell’associazione Maniphesta Teatro, è un luogo per accogliere autrici che non hanno ancora una voce conosciuta, e un tentativo di diffondere un linguaggio universale, nonostante la cultura ufficiale tenda relegarlo in spazi selezionati. Il progetto Orse Minori partirà il 4 marzo e avrà luogo nella Cantina di San Domenico, al centro storico di Napoli. Le poesie di alcune giovani autrici, tra cui Marcella Caputo e Alessandra Savino verranno lette e recitate da giovani attrici nelle giornate del quattro e cinque marzo. Tra le varie attività, anche lo spettacolo, diretto e recitato da me e Claudia Napolitano.
Un breve bilancio di questi cinquant’anni?
Tutto ancora da comprendere, tutto ancora da scoprire.
Alessia Thomas