Il 17 aprile si avvicina sempre di più ed è tempo, per il popolo italiano, di compiere una scelta: trivelle sì o trivelle no? Si è molto discusso circa questo referendum ma non a tutti, forse, risultano chiare le motivazioni di chi è pro trivelle e di chi, invece, è contrario.
Facciamo innanzitutto una precisazione: votando sì si vota per abrogare l’attuale legge – o meglio, il comma 17 dell’articolo 6 del decreto legislativo 152 del 2006, sostituito dal comma 239 dell’articolo 1 della legge di Stabilità – che permette alle trivelle che già operano entro le 12 miglia marine di continuare il proprio lavoro fino ad esaurimento del giacimento in questione. In altre parole, il sì imporrebbe la cessazione di questo tipo di attività non immediata ma entro il termine di scadenza della concessione. Il referendum, infatti, è di tipo abrogativo.
Trivelle: perché votare sì?
Quali sono le ragioni per votare sì? Secondo Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace Italia, con la vittoria del sì si andrebbe a limitare in senso temporale una presenza sotto costa di piattaforme inquinanti e, inoltre, questa limitazione non porterebbe alcun deficit energetico all’Italia. C’è anche da dire che, se è vero che se suddette piattaforme producono un quantitativo di gas che equivale al 3% dei consumi annui del Paese, sia il gas sia il petrolio prodotti apparterrebbero alle compagnie, quindi a privati. Inoltre, come sottolinea Enrico Gagliano, tra i fondatori del movimento NoTriv, «Sulla questione disoccupazione si fa terrorismo mediatico: il referendum riguarda concessioni che erogano il 9% del petrolio e il 27% di tutto il gas estratti in Italia; i pozzi di gas hanno superato da anni il picco di produzione e hanno una vita residua media di 5/6 anni, un tempo sufficiente per riqualificare il settore» A supporto di questo, si noti che molte delle piattaforme in questione sono del tutto automatizzate ad eccezione dell’esiguo personale di manutenzione.
Per quanto riguarda il turismo, è ancora Gagliano a sottolineare che la Croazia – da molti indicata come il modello da seguire – ha bloccato l’estrazione nell’Adriatico in favore del suddetto turismo. Inoltre, c’è da considerare il fattore di rischio ambientale: Greenpeace ha verificato un inquinamento delle acque causato da metalli pesanti e idrocarburi attorno alle piattaforme e si rammentino i due versamenti tra le Tremiti e il parco marino di Punta Penne. L’ultimo ha causato la dispersione in mare di circa mille litri di idrocarburo. La vittoria del sì porterebbe inoltre a un’accelerazione nel campo dell’energia pulita con la conseguente creazione di migliaia di posti di lavoro. La questione si complica se ci si proietta in ottica futura: tenendo conto del livello di ricerca raggiunta oggi – come nota Umberto Minopoli, presidente dell’Associazione italiana nucleare – non sarebbe possibile rimpiazzare l’energia fossile con quella rinnovabile a meno di non bloccare per quasi trent’anni il Paese.
Perché votare no?
Secondo Piercamillo Falasca, direttore editoriale di “Strade”, oltre alla perdita di circa 30mila posti di lavoro si andrebbe incontro ad una maggiore dipendenza italiana nei confronti dei paesi fornitori di energia fossile. Umberto Minopoli, inoltre, sostiene che aziende come l’Eni siano nate proprio a causa della scoperta degli idrocarburi in Italia diventando poi un colosso nel mondo anche per lo sviluppo di nuove tecnologie per il settore; mettendo un freno a questo settore energetico le aziende cesserebbero di investire in Italia. Per quanto riguarda l’inquinamento, proprio grazie al livello tecnologico molto avanzato delle piattaforme è possibile trattare in tutta sicurezza ciò che resta del processo di estrazione; anche l’acqua torna potabile dopo essere stata opportunamente trattata. Con la vittoria del no, inoltre, si impedirebbe un aumento della circolazione di petroliere ed altri mezzi atti al trasporto di risorse che l’Italia non sarebbe più in grado di produrre da sola. Il rischio di incidenti ambientali, dunque, aumenterebbe invece di diminuire.
Per quanto riguarda i posti di lavoro, dice Falasca che «andranno persi migliaia di posti di lavoro. Ci sono 11mila persone direttamente impiegate in attività estrattive. Altre 21mila che operano nell’indotto.» In sostanza, andrebbero persi moltissimi posti di lavoro non immediatamente recuperabili in altri settori. In ultima analisi, c’è da aggiungere che le fonti di energia rinnovabili richiedono continui finanziamenti pubblici e pagati direttamente – come giustamente sottolinea Minopoli – dai cittadini italiani.
Da ambo le parti vi sono argomentazioni condivisibili e giustificate; adesso sta al popolo italiano, chiamato in causa, decidere il futuro energetico del Paese.
Luigi Santoro
Fonti
Dichiarazioni di Enrico Gagliano e Umberto Minopoli
Dichiarazioni di Andrea Boraschi e Piercamillo Falasca
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