Ben Affleck nasce come Benjamin Géza Affleck-Boldt, nel 1972 a Berkeley: attore dunque statunitense della dorata generazione dei nati nei ‘70, di cui fa parte, innanzitutto, il suo grande amico Matt Damon. Nonostante le doti recitative di entrambi soffrano degli stessi difettucci, però, la vita di Ben Affleck, a differenza di quella del piccolo Will Hunting, non è stata costellata da brillanti regie e mazzi di rose.
Al contrario, con un certo stoicismo il nostro valoroso Ben Affleck ha affrontato vergogne e valli di lacrime per arrivare ai suoi più o meno lucenti traguardi, le sue vere soddisfazioni. Traguardi che puntualmente sono poi stati adombrati da vergogne successive.
Eh… È il cerchio della vita, non muore mai.
Ben Affleck giovane attore
Com’è noto, Ben Affleck comincia la sua “vera” avventura nel cinema come sceneggiatore e attore di “Will Hunting” (Gus Van Sant – 1997), insieme al già citato amico Matt Damon, benché fosse comparso in altre pellicole di non particolare fortuna o pregio tipicamente “USA anni ‘90”: c’entra il football, il college, i sacri valori americani, la difficile vita dei giovani studenti.
Dopo il successo del ’97, la carriera di Ben sembra prendere avvio all’insegna del blockbuster: è così che si prosegue dunque con “Armageddon – Giudizio finale” (Michael Bay – 1998), “Shakespeare in love” (John Madden – 1998), “Trappola criminale” (John Frankenheimer – 2000), “Pearl Harbor” (Michael Bay – 2001).
Continuerà così per tutti i primi anni 2000, passando per il disastroso “Daredevil” (Mark Stevens Johnson – 2003), che ha contribuito a fargli vincere un Razzie, e il più riuscito e infondo ben premiato “Hollywoodland” (Allen Coulter – 2006), per andare a finire poi su “La verità è che non gli piaci abbastanza” (Ken Kwapis – 2008).
Si fa quel che si può
Rendiamoci conto di una necessità primaria di molti di questi film: un’eventuale bravura vistosa o arrogante avrebbe inficiato la pellicola intera. Michael Bay non è famoso per le tematiche impegnate, né “Shakespeare in love” rimarrà nella storia per la lacerante complessità psicologica.
Esistono film costruiti attorno all’intensità di un personaggio e al talento dell’attore che lo interpreta. E ne esistono altri in cui gli attori sono solo manichini. Ebbene, Ben Affleck – la cui recitazione impassibile non aiuta affatto – è stato per tanto tanto tempo, e forse ancora, un manichino da sfruttare per il visetto niente male e per la stazza.
Probabilmente i due più grandi eventi che hanno scosso la sua carriera di attore, negli ultimi anni, sono stati “L’amore bugiardo – Gone Girl” (David Fincher – 2014) e “Batman v Superman: Dawn of Justice” (Zack Snyder – 2016). Com’è andato, l’ormai quarantenne Ben Affleck?
Fa quel che può: continua a non avere molta espressività. Ma qui supplisce, nel primo caso, l’oculatezza di un regista che costruisce un personaggio pacato, raggirabile, un po’ confuso, che calza a pennello con le palpebre a mezz’asta di Ben; supplisce, nel secondo caso, la tradizionale immobilità di Batman, supereroe tutto d’un pezzo che nasconde anche la più pallida parvenza di emozione sotto una mascella rigida e una massiccia e rassicurante massa muscolare.
Ben Affleck regista
Capitolo a parte è quello del Ben Affleck regista.
Nel 2007 dirige infatti il suo primo lungometraggio, “Gone baby gone”, il cui protagonista è Casey Affleck, il fratello minore. Tre anni dopo tocca invece a “The Town”, che vede protagonista lo stesso Ben accanto a Rebecca Hall, Jeremy Renner e Jon Hamm.
Entrambi sono basati su romanzi, entrambi sono thriller. Godibili, anche piacevoli, ma assolutamente dimenticabili: addirittura nel tentativo di ricordarli li si potrebbe confondere con altri thriller simili, senza riuscire a distinguere una scenografia dall’altra.
Se “Gone baby gone” riesce a lasciare una nota di amarezza e di inquietudine, “The Town”, con il suo bel carico di buoni e cattivi divisi da una linea netta, di sparatorie, amore e moralina finale, silenziosamente si auto-cancella il mattino dopo, senza che regia, sceneggiatura o recitazione abbiano aggiunto niente.
Nel 2012, Ben Affleck dirige infine “Argo”, ed è forse una piccola svolta: è anche questa una pellicola che, nonostante l’Oscar, scivola via dalla memoria come piccolo evento piacevole e poco altro, eppure segna un miglioramento rispetto ai due lavori precedenti.
Ben Affleck ne è notoriamente orgogliosissimo. E l’Academy fu ben lieta di premiarlo: in fondo si tratta di una vicenda in cui il mondo del cinema americano – in sceneggiatura apertamente sbeffeggiato, ma con affetto – è stato di aiuto perché un episodio spinoso in Iran avesse lieto fine. Qualche piccolo momento di tensione, un paio di episodi drammatici che Ben Affleck, in quanto anche protagonista, affida a se stesso senza particolare successo, alcune scenette macchiettistiche simpatiche… il risultato finale non è niente di profondo né di memorabile, ma rimane un lavoretto ben riuscito che lascia un bel sapore in bocca.
Chiara Orefice