L’interesse di Dilthey per la poesia e la letteratura in generale accompagna costantemente tutta la sua speculazione filosofica ma, lungi dal porsi come oggetto di sterile godimento estetico e solitario, ha piuttosto una funzione didattica, in grado di cogliere i prodotti germinali dello sviluppo culturale tedesco e di richiamare l’attenzione non solo di un pubblico colto, ma dell’alta borghesia politicamente impegnata.
Hölderlin e Dilthey spiriti affini
In questa prospettiva, in maniera – se vogliamo – lungimirante, il filosofo dello storicismo, allora appena trentenne, coglie il ruolo fondamentale della poesia di Hölderlin, prima in un articolo del 1867, poi in un saggio del 1906, così scrivendo: «È un’antica credenza che gli dei si manifestino nelle anime intatte e vi rivelino l’avvenire delle cose. Hölderlin visse in questa purezza religiosamente custodita e nella genuina bellezza della sua natura». Nel geniale poeta, Dilthey riconosce uno spirito affine: comune formazione teologica; stessa spiritualità contraddistinta dalla voglia di svincolare la fede dalla cecità dogmatica e dalle ingerenze politiche; stesso il culto per le forme dell’antica Grecia, esempi di perfezione a cui ambire. Ma l’aspetto che più di tutti interessa al filosofo renano è lo spirito controverso del poeta: Hölderlin anima pura, Hölderlin voce profetica, anche quando in età adulta cala su di lui il velo della follia. Quest’ultima, forza che soggioga gli animi più sensibili, è riconosciuta da Dilthey non come problema di ordine meramente fisiologico, ma reazione degli spiriti eletti e delicati alla sofferenza del loro tempo. Hölderlin quindi, incarnazione della Weltschmerz, il dolore del mondo che grida nello stridente contrasto tra la liberà dei moti illuministi e l’inappagato spiritualismo religioso, acuita dalla consapevolezza di appartenere ad un’epoca passata: l’autore dell’Iperione si sente alienato, egli è figlio dell’epoca greca, se ne convince.
Panteismo e Lirica
In questa sgradevole solitudine si situa il panteismo di matrice classica che permea ogni suo verso, esso è finalizzato alla comprensione della follia e ne è parte integrante. Il sentimento della totalità delle cose e la critica del poeta svevo ad un Dio che non è identificato con le sue creazioni, ma se ne fa anzi padrone, è un’idea lontana e inaccettabile, sacrificata sull’altare di una natura onnicomprensiva, materna e universale. Come universale e totalizzante è il connubio tra forma e contenuto della poetica, lo stesso Dilthey rintraccia nella forma lirica di cui fa uso Hölderlin lo strumento di alienazione introspettiva, vessillo di una libertà dalle cose del mondo che si traduce in ripiegamento su sé stesso, ermetismo, pazzia. Dilthey, che soffre con maggiore partecipazione nello scritto giovanile del 67’, e con matura consapevolezza nel saggio maturo, rintraccia nella follia il senso di questo spirito eletto e la natura di tutte le umane tensioni. Follia che incarna la malattia fisiologica e scientificamente inquadrata, in un’epoca di dogmatismo empirico; follia come spirito inascoltato, come solitudine, come riassunto estetico e nostalgico di un’intera generazione. Soprattutto pazzia non autoconsapevole, che coinvolge indistintamente ogni spirito sottile e non sordo alle tristezze del suo tempo, nessuno di noi è esente da una qualche forma di solitaria follia, e certamente un simile rischio è ancor più vivo in un’epoca in cui la strumentismo (mi si permetta il neologismo) calpesta più che mai gli ultimi sprazzi di umanità.
Rosanna Gioviale
Bibliografia
F. BIANCO, “Del profetico e della follia. Note sulla lettura diltheyana di Hölderlin.” in F. BIANCO, G. MATTEUCCI, E. MATASSI, Dilthey e l’esperienza della poesia, Centro Internazionale Studi di Estetica, Palermo 2001.
W. DILTHEY, “Esperienza vissuta e poesia”, Il Melangolo, 1999.