Se il reality show si struttura su un “gioco” che ha come oggetto le vite dei suoi protagonisti, perché non preconizzare che in un futuro non lontanissimo si possa giocare anche con la morte dei concorrenti, o meglio, rendere la morte stessa un gioco? È questa una delle domande di fondo che aleggiano nello spettacolo in scena al Piccolo Bellini in questi giorni, intitolato Human Farm, con riferimenti per nulla casuali ai romanzi di George Orwell Animal Farm e 1984, miscelati e riadattati con il dovuto sarcasmo dall’autore della drammaturgia Massimo Maraviglia e riadattati dalla regista Rosa Masciopinto. La scena si presenta semplice, progettata da Francesco Esposito come uno spazio scuro e semivuoto, se non fosse per uno schermo posizionato al centro che vede scorrere quasi senza sosta le immagini rappresentative e condizionanti questa odierna società. Sul palco, tre protagonisti, ipotetici abitanti del 2020 e partecipanti a questo umano gioco, sono Gennaro, Pidi e Gen, rispettivamente Antimo Casertano, Raffaele Parisi e Marianita Carfora, dalla compagnia Murìcena Teatro, la prima figlia dell’accademia del teatro Bellini di Napoli. All’atmosfera dell’angosciante sensazione di continuo controllo collaborano le luci di Gianni Porcaro, e le musiche, che non potrebbero essere più idonee alle varie scene, seguendole negli alti e bassi dei protagonisti, negli scorci drammaticamente comici e in quelli istericamente ansiogeni. Nessun dettaglio viene lasciato al caso, dalla grafica del logo del programma che ricorda uno dei nostri più diffusi social network, ai costumi, di Antonietta Rendina, simili per tutti e tre gli attori, impersonali, anonimi, quasi a ricordare divise da lavoro o tute da prigionia. Il pubblico può cogliere fin dall’inizio il gioco di finzione costruito in questa sorta di reality teatrale; i segnali della sensazione di costante controllo e forzata apparenza sono palesi in dettagli quali i sorrisi finti quanto smaglianti rivolti agli “osservatori”.
Ma se il riflettore sempre puntato non fosse una scelta dell’uomo quanto uno strumento di controllo somministratogli negli anni, prima sotto forma ludica e poco impegnativa fino a diventare un imposizione se non addirittura uno strumento di sottrazione di ogni autonomia, fatto passare all’uomo come indispensabile alla sua sopravvivenza? Discorso palese nella metafora dei frequenti blackout che finiscono per diffondere il caos fra i “concorrenti” o addirittura il loro totale “spegnimento”, come se l’essere umano fosse tenuto in vita e composto di corrente elettrica e multimedialità, e non più di emozioni e sentimenti. Personaggi dai caratteri curiosi, quasi indecifrabili, aridi, incapaci di dare affetto o di provarlo, confusi, circa i propri ruoli o la propria identità, concludendo, personaggi fatti per lo più di apparenza ma privi di sostanza e di idee che li caratterizzino.
I dubbi sgorgano palesi ed è lì che si cela il fulcro dell’opera: se la rete informatica che fra televisione, internet, social e motori di ricerca vari ci tiene tutti collegati in realtà ci incatenasse solo tutti come suoi schiavi? Ma in fin dei conti schiavi di chi o di che? Chi tira le redini del giogo? Chi ci ha convinti e per quale ragione che siamo solo immagini animate sullo schermo della vita? e quand’è che abbiamo smesso di ragionare e posato i pensieri indipendenti circa la nostra individualità?
E se il teatro è una forma di comunicazione intelligente fatta di carne e sangue, quale miglior modo si poteva scegliere per passare ad un pubblico queste riflessioni e questi contenuti, suggerimenti per un’analisi di se stessi e della società che componiamo, affinchè le menti più vispe ricordino che, appunto, questa società la componiamo noi, e non viceversa.
Letizia Laezza