Il soprannaturale ed il divino esercitano un’influenza determinante sull’uomo antico e sugli eventi. Tra queste incontrollabili potenze ci sono le Moire, che tessono i fili del destino, ponendosi anche al di sopra del controllo degli dèi supremi.
L’acquisizione e la trasmissione delle verità collettive e del bagaglio di conoscenze avvenivano attraverso il patrimonio mitologico e religioso. Il mythos restituisce una concezione del mondo basata su credenze tradizionali, tramandate di generazione in generazione. La letteratura arcaica pullula di eroi e divinità, i quali assolvevano allo scopo di fissare e conservare i valori etici e sociali, oltre che tutte quelle credenze relative all’origine e al destino dell’umanità. I δαίμονες sono quelle forze che intervengono nelle faccende dell’uomo, ignaro della propria finalità in questo mondo. Nemmeno agli eroi dei poemi epici è permesso penetrare il gioco delle potenze divine. Essi invocano l’intervento divino e lo giudicano favorevole o meno a seconda del risultato.
Nell’antichità, la concezione della vita consisteva nel riconoscere dei limiti, dei confini oltre i quali era vietato spingersi: questa soglia è il destino, le colonne d’Ercole che segnano la linea delle possibilità umane. In questo gioco predefinito di ruoli, gli dèi assegnano all’uomo la sua parte. Così, δαίμων è arrivato a significare μοι̃ρα, “parte, destino”, riunendo i due termini che, nei valori originali, differiscono. Moira, che è la “parte” che tocca a ciascun uomo, è diventata una divinità.
Un destino ineluttabile: le Moire tra uomini e dèi
Nei poemi omerici la realtà è rappresentata dal parallelismo fra mondo umano e mondo divino: gli dèi sono ovunque, instaurano con i mortali un rapporto di favore o avversione, ostilità o aiuto. C’è un divario insormontabile tra uomini e dèi, determinato dalla beatitudine divina vissuta con sofferenza dall’essere mortale, il cui peregrinare su questa terra sembra senza fine. Lo stesso Achille nel libro XXIV dell’Iliade afferma:
Questo destino stabilirono gli dèi per gli infelici mortali,
vivere nel dolore: essi invece sono senza affanni.
Dunque, all’uomo non è dato conoscere il proprio destino: esso è l’ignoto, l’imprevedibile, i fili mossi da una volontà superiore. A partire dai poemi omerici, questa potenza, sospesa al di sopra degli uomini e degli dèi, è personificata nell’immagine delle tre Moire, Atropos, Clotho e Lachesi. Per gli uomini le Moire regolavano la durata della vita dalla nascita alla morte, utilizzando un filo. Dalla Teogonia di Esiodo (vv. 211-222) leggiamo:
Notte poi partorì l’odioso Moros e Ker nera
e Thanatos. Morte, generò il Sonno, generò la stirpe dei Sogni;
non giacendo con alcuno li generò la dea Notte oscura;
e le Esperidi che, al di là dell’inclito Oceano, dei pomi
aurei e belli hanno cura e degli alberi che il frutto ne portano;
e le Moire e le Kere generò spietate nel dar le pene:
Clotho e Lachesi e Atropo, che ai mortali
quando son nati danno da avere il bene e il male,
che di uomini e dei i delitti perseguono;
né mai le dee cessano dalla terribile ira
prima d’aver inflitto terribile pena, a chiunque abbia peccato.
Figlie di Zeus e Temi, le Moire dimoravano nell’Ade, nutrendo un senso di distacco per la vita degli uomini: Clotho presiedeva alla nascita e filava lo stame della vita; Lachesi svolgeva lo stame sul fuso e Atropo lo recideva con le cesoie, irreversibilmente. Clotho rappresenta la sintesi del dualismo della vita, dell’aspetto razionale e di quello intuitivo. È l’uovo cosmico, il neonato che si affaccia alla vita in tutta la sua purezza. Lachesi è la realtà corporea, la fase della vita che può determinare la scelta del proprio essere, il bivio tra il bene e il male. Atropo è la morte, la fine che determina un nuovo inizio, in quel ciclo dell’esistenza determinato da Nascita, Vita e Morte. Le Moire incarnano la metafora dell’essere.
All’interno del pantheon olimpico, il ruolo delle Moire era quello di stabilire l’equilibrio del cosmo, una sorta di freno all’immortalità degli dèi e alla sofferenza umana di fronte all’impossibilità di controllare lo svolgersi dell’esistenza. Tuttavia, i Greci non trascorrevano un’esistenza tormentata dal timore del compiersi del destino; vivevano con la consapevolezza della fugacità. Così Mimnermo nei suoi versi affronta il tema della condizione umana destinata alla vecchiaia, alla sofferenza e alla morte, manifestando nel suo lamento per il destino umano la fuggevolezza dell’amore:
Godi la giovinezza! Viene ben presto la vecchiaia, che rende l’uomo brutto e inetto e gli rapisce la capacità di gioire del sole e della vita!
Deh, senza malattie, deh, senza incresciosi pensieri, il destino di morte mi colga a sessant’anni.
Rifugiarsi nel carpe diem significava accettare una visione disincantata del destino, che non può garantire una felicità a lungo termine. Da qui, la convinzione di “cogliere l’attimo” per esercitare la libertà nei confronti dell’ignoto, dell’incontrollabile destino. La libertà umana si manifesta nella scelta di vivere delle piccole cose, brevi istanti assaporati in un tempo dilatato e governato da forze insuperabili. Esercitare la libertà significava accettare il proprio destino con orgoglio: gli eroi dei poemi muoiono in battaglia, consapevoli di far parte di un grande disegno divino.
Per i Greci, il destino era anche Ananke, la madre delle Moire; scrive Platone, Repubblica X, 135, 34:
Altre tre donne sedevano in cerchio a uguale distanza, ciascuna sul proprio trono: erano le Moire figlie di Ananke, Lachesi, Cloto e Atropo, vestite di bianco e col capo cinto di bende; sull’armonia delle Sirene Lachesi cantava il passato, Cloto il presente, Atropo il futuro.
Secondo questa chiave di lettura, il destino va ad identificarsi con il Fato, in quanto “Ananke” sta a significare “necessità, costringimento”. Tuttavia, la sorte per i greci è comunemente indicata con Tyche, la dea bendata, personificazione della Fortuna.
La cultura moderna ha trasformato le Moire in figure del folklore greco; esse abitano un antro remoto e vanno a fissare il destino del neonato tre giorni dopo la nascita. È usanza, quindi, preparare loro del cibo nel giorno della visita delle Moire.
Giovannina Molaro
Bibliografia:
P. Chantraine, Le divin et les dieux chez Homère, in Entretiens sur l’antiquitè classique, I, Fondation Hardt, Genève 1954.
F. Montanari – F. Montana, Il telaio di Elena, L’età arcaica, Editori Laterza, 2002
A. Porcarelli, Il problema del destino dell’uomo nei miti greci dell’età arcaica, su “Sacra Doctrina”, anno 43°, n.1, gennaio – febbraio 1998, pp. 72 – 116