Quello di Trilussa è un nome che si è sentito nominare almeno una volta. Un poeta che ha scritto poesie in dialetto romanesco, ma anche a chi non è romano sarà capitato di leggere alcuni suoi versi. L’importanza di Trilussa è notevole, poiché ha avuto il merito di dipingere un affresco di cinquant’anni di storia italiana, dalla monarchia dei Savoia ai primi anni della repubblica.
Biografia di Trilussa
Carlo Alberto Camillo Salustri nasce a Roma il 26 ottobre del 1871. Il padre, Vincenzo Salustri, era un cameriere mentre la madre, Carlotta Poldi, una sarta. La famiglia vive in situazioni economiche precarie, fino a quando il marchese Ermenegildo de’ Cinque Quintilli, un amico del padre, non accoglie la famiglia Salustri nel proprio palazzo situato a piazza di pietra, nella capitale.
Carlo studia fino a 15 anni, età in cui abbandona gli studi. Si forma da autodidatta e sviluppa la passione per la scrittura, in particolare per la poesia di Gioacchino Belli. Nel 1887 compare sulla rivista Il Rugantino il suo primo componimento, L’invenzione della stampa, che firma per la prima volta con il soprannome di Trilussa (che è nient’altro che l’anagramma del suo cognome). In seguito collabora con le riviste Don Chisciotte e Il Messaggero, oltre a pubblicare le proprie raccolte poetiche. Tra le più importanti Favole romanesche (1900), Ommini e bestie (1908) e Acqua e vino (1944).
Durante il ventennio fascista vive senza il disturbo di particoalri episodi, nonostante non avesse la tessera del partito, e il 1 dicembre del 1950 viene nominato senatore a vita dal presidente della repubblica Luigi Einaudi. Ma è anche l’anno in cui le condizioni di salute del poeta si aggravano ( tanto da affermare, con ironia, di essere stato nominato “senatore a morte“). Il 21 dicembre dello stesso anno, Trilussa muore nella sua casa a Roma.
Il bestiario Trilussiano
Nelle proprie poesie, Trilussa proietta il mondo della borghesia romana in tutta la sua quotidianità. Se infatti Gioacchino Belli, il poeta romanesco da cui il signor Salustri prende ispirazione, versificava lo strato più umile della popolazione di Roma, Trilussa fa il contrario.
Questa decantazione della borghesia passa attraverso il filtro di un’ironia sagace, che mette alla berlina i vizi degli uomini. A questo scopo l’uso della favola come metafora di tali vizi è più che mai adatto.
L’ Omo disse a la Scimmia:
-Sei brutta , dispettosa:
ma come sei ridicola!
ma quanto sei curiosa!
Quann’ io te vedo, rido:
rido nun se sa quanto!…La Scimmia disse : – Sfido!
T’ arissomijo tanto!
La favolta trilussiana non diferisce molto da quella classica di Esopo e Fedro, in quanto anche questa ha lo scopo di trasfigurare gli uomini in animali. La bestialità umana rappresentata da Trilussa non si avvale però di una morale che serve da ammaestramento a chi legge, ma si limita ad offrire uno spaccato di realtà quotidiana. Ecco perché, nella poesia citata poc’anzi, l’uomo non può concedersi il lusso di prendere in giro la scimmia e per un motivo semplice: lui stesso ricalca l’animale e ne rispecchia gli stessi vizi.
Naturalmente Trilussa non risparmia neanche il mondo politico dalle sue frecciatine. Ne L’elezzione der Presidente, il poeta immagina che un gruppo di animali da fattoria si riunisca per eleggere il proprio presidente. Tra i vari candidati, se ne presenta uno molto particolare: un asino con addosso la pelle di un leone.
[…]
Un Somarello, che pe’ l’ambizzione
De fasse elegge’ s’era messo addosso
La pelle d’un leone,
Disse: – Bestie elettore, io so’ commosso:
La civirtà, la libbertà, er progresso…
Ecco er vero programma che ciò io,
Ch’è l’istesso der popolo! Per cui
Voterete compatti er nome mio… –
Defatti venne eletto propio lui.
Er Somaro, contento, fece un rajo,
E allora solo er popolo bestione
S’accorse de lo sbajo
D’ave’ pijato un ciuccio p’un leone![…]
Naturalmente il popolo animale, scoperto l’inganno, protesta. Ma la lapidaria risposta dell’asino non lascia via di scampo.
[…]
Peggio pe’ voi che me ciavete messo!
Silenzio! e rispettate er Presidente!
Si tratta di un’amara riflessione sulle promesse fatte dai politici e mai mantenute, ma anche sulla loro sinistra capacità camaleontica di adattarsi agli umori del popolo per poi remargli contro. Risulta chiaro che Trilussa doveva trovare un modo per arginare la censura che poteva gravare sui suoi versi e quindi l’uso degli animali si rivela utile anche a questo scopo.
Il tempo delle riflessioni
Ovviamente Trilussa non si limita al solo mondo dell’allegoria favolistica. In alcune poesie riflette su temi come la nostalgia e la vecchiaia, derivanti dalla consapevolezza del tempo che scorre e che non si può recuperare.
È un orloggio de legno
fatto con un congegno
ch’ogni mezz’ora s’apre uno sportello
e s’affaccia un uccello a fa’ cuccù.
Lo tengo da trent’anni a capo al letto
e m’aricordo che da regazzetto
me divertiva come un giocarello.
M’incantavo a guardallo e avrei voluto
che l’ucelletto che faceva er verso
fosse scappato fòra ogni minuto…[…]
Mó l’orloggio cammina come allora:
ma, quanno vede lo sportello aperto
co’ l’ucelletto che me dice l’ora,
nun me diverto più, nun me diverto…
Anzi me scoccia, e pare che me dia
un’impressione de malinconia…[…]
In questi versi de L’orologio a cucù è ben evidente la tematica del tempo che scorre e che toglie agli uomini il piacere verso ogni cosa. Tutto si risolve in un annullamento delle passioni, in una perdita di interesse anche verso quelle piccole cose che rendono la vita piacevole. C’è però spazio anche per la saggezza popolare, come ne L’onestà de mi’ nonna.
Quanno che nonna mia pijò marito
nun fece mica come tante e tante
che doppo un po’ se troveno l’amante…
Lei, in cinquant’anni, nu’ l’ha mai tradito!Dice che un giorno un vecchio impreciuttito
che je voleva fa’ lo spasimante
je disse: – V’arigalo ‘sto brillante
se venite a pijavvelo in un sito. –Un’antra, ar posto suo, come succede,
j’avrebbe detto subbito: – So’ pronta.
Ma nonna, ch’era onesta, nun ciagnede;anzi je disse: – Stattene lontano… –
Tanto ch’adesso, quanno l’aricconta,
ancora ce se mozzica le mano!
Ultima, ma non meno importante, è anche la condanna contro la guerra. Per un uomo che ha vissuto il ventennio fascista e il periodo delle due guerre mondiali, un tema del genere non poteva passare inosservato. Tutto questo confluisce in un messaggio di pace e di fratellanza, in una speranza che un giorno gli uomini possano mettere da parte le ideologie e le bandiere per essere consapevoli di essere membri di un’unica razza.
Da qui a cent’anni, quanno
ritroveranno ner zappà la terra
li resti de li poveri sordati
morti ammazzati in guerra,
pensate un po’ che montarozzo d’ossa,
che fricandò de teschi
scapperà fòra da la terra smossa!
Saranno eroi tedeschi,
francesci, russi, ingresi,
de tutti li paesi.
O gialla o rossa o nera,
ognuno avrà difesa una bandiera;
qualunque sia la patria, o brutta o bella,
sarà morto per quella.Ma lì sotto, però, diventeranno
tutti compagni, senza
nessuna diferenza.
Nell’occhio vôto e fonno
nun ce sarà né l’odio né l’amore
pe’ le cose der monno.
Ne la bocca scarnita
nun resterà che l’urtima risata
a la minchionatura de la vita.
E diranno fra loro: – Solo adesso
ciavemo per lo meno la speranza
de godesse la pace e l’uguajanza
che cianno predicato tanto spesso!
Ciro Gianluigi Barbato