La voce del gobbo di un circo, in qualità di narratore, esordisce con: “Conoscete la storia”. Sì, ecco… non si può dire sia più comune il caso contrario: il romanzo di Mary Shelley è stato trasposto più di una volta. Ebbene, con una premessa del genere, la domanda sorge spontanea. In cosa “Victor: la storia segreta del dott. Frankenstein” di Paul McGuigan si propone di competere con almeno alcuni dei suoi predecessori e così giustificare se stesso?
Anzi, prima di questo: ma un proposito del genere, ce l’ha?
Victor Frankenstein
Ora, purtroppo la storia di Victor Frankenstein non fa troppe concessioni ad una sceneggiatura: ci deve essere un mostro, un dottore, un assistente, un risveglio con molte urla, un’ambientazione gotica. Ma niente paura: siamo nell’era del post “Van Helsing”, del post “Sin City” e del post “Sherlock Holmes”: il pubblico non si scandalizzerà di certo se tutto viene trasformato in un quasi-fumetto, con dottore e assistente molto più accattivanti delle loro versioni classiche…
Eccolo! Siamo arrivati al primo problema: perché? Perché c’è bisogno di questa eugenetica dei personaggi, che domanda giovinezza e abilità disumane ad ogni costo?
Non bastava che il dottor Victor Frankenstein fosse geniale abbastanza da creare la vita, no: è anche giovanissimo, è addirittura uno studente di medicina; ha il volto di James McAvoy, quindi è bello; è agile, ha il fisico allenatissimo e pronto alla fuga e al combattimento (tipico degli studenti di medicina). E poi, poiché questo è sempre un elemento di fascino, è anche squilibrato, tendente alla pazzia e all’alcolismo, in uno scimmiottamento un po’ troppo sfacciato di Robert Downey Jr. nei panni di Sherlock Holmes.
E nonostante tutto, si potrebbe ancora apprezzarlo se fosse un personaggio alla Faust come si deve, se ne ricordasse anche solo vagamente la profondità. Lo fa ben sperare qualche discorso ammiccante in maniera non troppo sottile al presente: tutti quei discorsi sui traguardi della scienza che anticipano invenzioni a noi ben note, e che hanno a che fare con la vita; e poi la presenza di Andrew Scott come detective accecato dalla propria fede in Dio e convinto di combattere il diavolo…
Con un po’ più di coraggio da parte del regista tutto questo avrebbe potuto trasformarsi in un discorso serio, in una presa di posizione, o almeno in un rispecchiamento veritiero ed efficace del contesto odierno che facesse riflettere gli spettatori su questioni di bioetica… Macché.
Si risolve tutto con una rivelazione lacrimevole (che rivelazione non è, lo sanno già tutti da mezz’ora circa, in sala): Victor Frankenstein è un dottore che riporta in vita i cadaveri riassemblati perché gli è morto il fratello.
Peccato per McAvoy, lui è bravo.
Igor
Ma il bisogno di perfezione ha mietuto innanzitutto un’altra vittima: Igor!
Ora, Daniel Radcliffe entra in scena come un gobbo davvero intelligente che studia medicina nei ritagli di tempo. “Molto bene”, è il primo pensiero, “sarà interessante guardare la prova attoriale di Radcliffe come diciottenne sfortunato che, nonostante la sua condizione misera, lotta per arricchire la propria cultura”.
E invece no: non basta che sia talmente geniale da riuscire a operare una clavicola rotta con un orologio e un pugno, presumibilmente senza aver mai nemmeno toccato un corpo umano al di sopra dell’ombelico ma solo avendolo disegnato e studiato sui libri (che chissà dove ha preso) nelle pause tra un numero e l’altro al circo; in quattro e quattr’otto la sua gobba viene drenata via, e con un busto il gioco è fatto: è in piedi, dritto! Tutto risolto. Ora non è spiacevole da guardare. Può star lì, come il fido Watson, pacato, saggio e intelligente, carino, profondamente grato al suo nuovo amico Victor, moralmente sano…
A tutto questo ovviamente fa seguito l’investimento totale sull’estetica steampunk, per cui tutto sbuffa vapore, ticchetta e si lamenta, in una Londra ottocentesca, di cui Igor si fa esploratore ingenuo, che si è perfino riusciti a rendere meno bella del solito, tra balli pomposi e palazzoni cupi che di originale non hanno assolutamente nulla.
Igor porta lo stesso nome della creatura e in qualche modo ne fa le veci: in quanto umano sempre vissuto all’interno di un circo e improvvisamente liberato, scopre Londra come avrebbe potuto fare il mostro di Frankenstein appena nato, se mostro non fosse stato. Non è un caso che il dottore gli affibbi lo stesso nome della creatura, certo: il paragone è sottolineato a più riprese. Per non parlare del fatto che la frase con cui Victor Frankenstein si congeda, rivolgendosi all’assistente, è: “sarai sempre la mia miglior creazione”.
Di nuovo: è un’idea interessante, sì, ma priva di qualunque risvolto di un certo spessore. C’è un significato politico, dietro? Oppure vuole essere una reinterpretazione della trama della Shelley? E chi lo sa. È tutto talmente farcito di bei vestiti, azione mal piazzata, chiasso visivo e uditivo, che qualunque messaggio ci fosse in origine è andato perduto.
Chiara Orefice