Nata come attrazione dark per adolescenti e adulti del parco di divertimenti, la saga di “Pirati dei Caraibi” è ormai un pezzo della cultura pop, erede delle avventure celebri discese da quel capostipite che fu “L’isola del tesoro” di Robert Louis Stevenson. Declinatasi in film, fumetti e romanzi, la saga ha avuto notevole fortuna di pubblico, incassando, in meno di dieci anni, qualche miliardo di dollari, e lasciandoci una delle figure più caratteristiche del cinema d’intrattenimento: Capitan Jack Sparrow.
La maledizione della prima luna
È nel 2003 che, con il suo bel cast, esce “La maledizione della prima luna” (Gore Verbinski), il primo film della fortunatissima saga. Basata su una trama più semplice rispetto a quelle successive, la storia del Capitano Jack Sparrow (Johnny Depp), del comprimario Barbossa (Geoffrey Rush) e degli innamorati Will Turner ed Elizabeth Swann (Orlando Bloom e Keira Knightley), si distribuisce ben dosata sugli stilemi della pirateria dell’età moderna in tutto il suo splendore barocco.
Siamo nel 1700 nel Mare dei Caraibi: l’immaginario è quello della vita di mare governata da regole sconosciute soggette a interpretazioni diametralmente opposte, della libertà dell’oceano. Non solo: se alcune colonne portanti del “genere” non mancano – pappagalli sulle spalle, ciurme poco raccomandabili, rhum e tesori – alcuni elementi un po’ fuori orbita arrivano per influenzare e mai più abbandonare il concetto contemporaneo di pirata.
Così al motivo della nave fantasma si aggiunge l’atmosfera del porto coloniale, a un gusto un po’ horror si unisce il sudiciume del bordello sifilitico, e arrivano magia, maledizioni e siparietti comici. A tutto si aggiunge il personaggio di Jack Sparrow, affettato nelle movenze e all’apparenza disordinato e sprovveduto. Eppure se qualcosa di contorto c’è ne “La maledizione della prima luna”, esiste proprio grazie alla furbizia di Capitan Jack e ai suoi piani contorti, sempre in biblico tra la lealtà e il tradimento.
A tutto questo si aggiunge un’azione che non ha un attimo di tregua, la classica storia d’amore e un paio di comic relief molto efficaci. Fu un successo.
Pirati dei Caraibi – La maledizione del forziere fantasma
Quindi, naturalmente, ci fu il seguito. Nel 2006, infatti, arrivò “Pirati dei Caraibi – La maledizione del forziere fantasma“, il cui finale venne lasciato in sospeso con il dichiarato intento di completare almeno una trilogia.
I personaggi più caratteristici vennero recuperati, e chi il pubblico aveva già conosciuto bene venne sviscerato ancora più metodicamente per studiarne le reazioni. Così Elizabeth Swann scoprì di essere più portata per le navi che per i corsetti stretti, Will Turner divenne a tutti gli effetti un pirata, e Jack Sparrow diede prova di una vigliaccheria e di una slealtà fuori dal comune persino per un corsaro, tanto da diventare quasi insopportabile.
Abbandonate le luci diafane della luna rivelatrice di maledizioni, entrarono in campo alcuni elementi da fiaba, tra cui una strega (Naomie Harris) e un cuore strappato via dal petto e chiuso al sicuro in un forziere. Se prima l’antagonista era un ben poco temibile Barbossa, ora a essere temibile per Capitan Jack è Davy Jones (Bill Nighy), un mercante di anime trasformato per metà in una creatura marina.
Tutto è ancora più barocco, macchiato dall’evidente angoscia della novità più nuova che più nuova non si può tipica dei sequel. E nonostante ciò risulta ancora piacevolissimo: nuovo risalto hanno quelli che prima erano i coprotagonisti, ora messi alla prova in situazioni estreme; e un medesimo fascino è conservato dal mondo piratesco, apertosi per farsi ammirare in alcune ramificazioni prima inesplorate.
Pirati dei Caraibi – Ai confini del mondo
Proprio il mondo piratesco è, si può dire, il vero protagonista del terzo film. Più complesso degli altri due e comunque perfettamente comprensibile e ugualmente appassionante, “Pirati dei Caraibi – Ai confini del mondo” (2007) si dispiega su scenari ampi come mai prima.
Vediamo per la prima volta infatti tutti i volti dei pirati nobili e il codice di cui tanto si era parlato in precedenza. Diamo anche un’occhiata al “purgatorio” dei pirati, l’interno dello scrigno di Davy Jones, un luogo di pazzia e punizione. Con la presentazione infine di una dea del mare e del Caronte-pirata suo innamorato – e quindi, avendo fatto la conoscenza, oltre che del mondo terreno, anche delle “divinità-pirata” – possiamo dire di aver infine concluso il viaggio esplorativo nel mondo dei pirati dei Caraibi, un microcosmo libero in lotta con la Compagnia delle Indie che vuole inscatolarlo ordinatamente secondo le proprie regole.
Un po’ più stanco degli altri due, è però il capitolo più fiero di sé. In tre orgogliose e maestose ore che si dividono in sottocapitoli, la pellicola indugia in scene che, senza aggiungere nulla di necessario alla trama, servono soltanto a cesellare meglio il mondo dei pirati, razza a se stante che vive in un mondo mitologico e ormai quasi palesemente considerato parallelo a quello reale.
L’evoluzione del personaggio di Jack Sparrow torna su se stessa chiudendosi ad anello, permettendo agli spettatori di tirare un sospiro di sollievo dicendosi che infondo Capitan Jack è bravo, sì, ha un cuore d’oro e vuole bene al suo Will. Proprio Will, insieme a quella che è diventata sua moglie, ha subito la trasformazione più vistosa. Figlio di pirata, è diventato suo malgrado il traghettatore delle anime dei corsari, accedendo all’Olimpo del Mare dei Caraibi. Elizabeth Swann, invece, è diventata Re dei Pirati, più combattiva e forse più spietata di tutti.
I due coniugi si lasciano al tramonto, in un finale dolceamaro, accettando il proprio destino di tasselli ormai indispensabili del mondo, prima temuto e disprezzato, dei pirati dei Caraibi. Quanto a Jack…
Per lui seguirà un quarto capitolo, e anche un quinto…
Chiara Orefice