Sono spariti da internet, hanno fatto parlare di loro in qualsiasi modo possibile con messaggi criptici, ma ora è arrivato il momento della verità, il momento della concretezza: ecco A Moon shaped pool, il nono album dei Radiohead.
L’assaggio era già cominciato qualche giorno fa con Burn the Witch. Al momento del rilascio, avvenuto 5 giorni fa, la canzone aveva entusiasmato (ma non troppo) la fanbase della band inglese, ma soprattutto ha sbalordito i grandi esperti del suono che hanno lodato il maniacale lavoro di Johnny Greenwood per la base di una canzone sicuramente fuori dagli schemi e senza dubbio originale, che lascia un sorriso misto con una sensazione di inquietudine con il crescendo finale.
Boom di visualizzazioni che ha distanziato di gran lunga altre canzoni dei precedenti album che forse meritavano molto di più, Burn the Witch è stata seguita da Daydreaming, che grazie ad un lavoro superlativo del regista Paul Thomas Anderson e l’abilità “recitativa” e canora di Thom Yorke, ha fatto gridare al capolavoro e fatto crescere l’hype per questo album. Daydreaming si riallinea alle atmosfere classiche dei Radiohead, sospesa in un’atmosfera quasi irreale.
Il momento fatidico è arrivato alle ore 20:00 dell’otto maggio, come promesso, quando è finalmente comparso A Moon shaped pool, dopo che la tracklist era già comparsa su qualche sito. La bomba è stata sganciata.
Delle prime due canzoni abbiamo già parlato: tutto ciò che segue amplifica ancora di più la forza mistica di questo lavoro, come già ampiamente previsto incorniciato splendidamente da sound vicini ad un barocco orchestrale e con meno presenza di elettronica. Decks Dark e Desert Island Disk hanno qualcosa che richiama ad Hail To The Thief, una strizzatina d’occhio a Kid A ed un accenno ad In Rainbbows, tre precedenti lavori della band, e si respira un’energia che sa tanto di crescita professionale e di un incessante maturità firmata Thom Yorke e compagnia, sempre alla ricerca di un miglioramento. Tuttavia, oltre Daydreaming, la prima parte dell’album scorre via con abbastanza normalità, un buon lavoro ma senza toccare vette di eccellenza, tanto che si potrebbe persino accennare ad un pizzico di delusione, ma ci pensa Full Stop a riportare tutti sull’attenti, dando luce ad una vitalità pazzesca. Glass Eyes è commovente, delicata, da stringere e tenere nel cuore con estrema cura, mentre Identikit, superato lo shock iniziale della differenza abissale con la versione live presentata qualche anno fa, suona come un passo religioso, un mantra, forse la migliore traccia dell’album. The Numbers è un ennesimo manifesto della genialità messa in campo dai Radiohead, che riescono ad armonizzare la normalità e tenderla verso il sublime, dimostrando che l’aggiunta degli archi è una scelta assolutamente vincente, in un mondo che va sempre più verso l’elettronico, campo sperimentato in anticipo dai Radiohead praticamente il secolo scorso. The Present Tense era quella più chiacchierata, da ormai mesi, la canzone che aveva la certezza di essere dentro il nono lavoro in studio della band inglese, e non delude le aspettative così come non le aveva deluse nei live. Tinker Tailor Soldier Sailor Rich Man Poor Man Beggar Man Thief si distingue per il titolo originale, ma si allinea alla perfezione con il disegno di questo lavoro, regalando le stesse sensazioni. La traccia di chiusura, a sorpresa, è True Love Waits, canzone già famosa dei Radiohead ma di fatto mai registrata in studio: qui il discorso si complica, perché True Love Waits è una canzone già conosciuta e già commovente nelle sue precedenti versioni, mentre questa spiazza al primo ascolto, lasciando forse qualche dubbio, ma riascoltandola si può apprezzare una raffinatezza spietata in suoni struggenti, che accompagnano il canto malinconico di Thom Yorke.
I’m not living
I’m just killing time..
Il giudizio finale non può che essere positivo: siamo davanti ad un lavoro ben curato, non c’è un dettaglio fuori posto e non ci si può lamentare per qualche aspettative deluse. Il lavoro con London Contemporany Orchestra ha funzionato alla grande ed i Radiohead hanno dimostrato di saper trasmettere intensità e sofferenza, con un messaggio lanciato che oscilla tra le loro vicende personali (la separazione di Thom dalla moglie, la morte del padre del produttore Nigel Godrich) e la loro immancabile sensibilità artistica, fiore prezioso in questo deserto musicale. Ma si può essere veramente obiettivi dinanzi ad A Moon shaped pool? Interessante, a proposito, l’articolo dei colleghi di Soundbound che potete leggere qui. Se è vero che il risultato finale sia impeccabile, non si può negare che a contribuire nel giudizio finale entri in scena quella macchina dell’hype scatenata dai giorni (se non dai mesi) precedenti alla distribuzione dell’album, hype che forse ha fatto in modo di alimentare l’operazione di marketing attorno al CD e farci dare un giudizio positivo al lavoro dei Radiohead ben prima dell’ascolto. Tuttavia è innegabile che il marketing non serva più di tanto a questa eccezionale band, sempre più in cima alle vette della musica mondiale di tutti i tempi, grazie a performance artistiche mai banali, mai commerciali e sempre estremamente caratteristiche, delicate, pungenti, che toccano l’anima e la trapassano fino in fondo. Solitamente si dice che i Radiohead si amano o si odiano, ma dopo questo ennesimo manifesto artistico, inferiore solo all’eccellenza massima toccata da OK Computer e da Kid A, vi conviene amarli.
Voto: 4,8/5
Canzone consigliata: Identikit
Diego Sbriglia