Marina Abramovic è un’artista diventata famosa per un modo del tutto nuovo di fare arte: la performance, un’azione artistica che ha diverse finalità espressive e viene presentata al pubblico.
Le dimensioni entro cui si muove e si caratterizza la performance possono essere: il tempo, lo spazio e il corpo. Il concetto di tempo è molto relativo in questa forma d’arte in quanto ultimata l’azione, l’opera è conclusa, non è più stabile e permanete come la resa di un dipinto. L’atto performativo invade spesso lo spazio anche quello più insolito e, anche se si esegue entro le mura di un museo, l’azione decontestualizza lo spazio entro cui si compie. Il corpo è il supporto artistico in movimento o immobile.
Quello che è certo è che esso sostituisce la tela, il marmo per andare oltre di essi. L’artista s’identifica con la sua produzione nel vero senso della parola. Ecco che la performance può essere considerata una nuova frontiera dell’arte contemporanea, volta alla provocazione e a dare centralità a tematiche e quesiti che destabilizzano ogni individuo.
“Il pubblico può uccidermi”
Presso la Galleria Studio Morra di Napoli nel 1974, Marina Abramovic ha messo in atto uno delle sue performance più sconvolgenti. L’artista si è messa a disposizione del pubblico presente per ben sei ore. Nella sala vi era un tavolo con 72 oggetti che le persone potevano utilizzare per interagire con lei e con il suo corpo: strumenti di tortura e di morte come fruste, catene, metalli, pistole e lamette. Anche oggetti come bottiglie, scarpe e piume. Durante tutto questo tempo gli spettatori erano autorizzati a fare dell’artista ciò che volevano dal ferirla al denudarla.
Le istruzioni dell’artista erano precise: aveva messo a disposizione oggetti che recavano sia piacere che dolore e qualsiasi cosa fosse successa, sarebbe stata di sua responsabilità. In quelle sei ore le reazioni del pubblico sono state le protagoniste dell’atto performativo.
Inizialmente nella stanza regnò la perplessità e l’imbarazzo e le azioni verso l’Abramovic si limitavano al toccarla. Ma in un secondo momento gli spettatori si fecero prendere dalla curiosità: gli abiti dell’artista furono rotti con le lamette, con le stesse fu ferita e alcuni uomini le succhiarono il sangue dai tagli, mentre qualcuno ha provato a proteggerla.
Venne legata e palpata, quasi una forma di violenza sessuale, fino ad arrivare all’atto estremo di darle tra le mani la pistola carica. Concluso il tempo a disposizione l’Abramovic reagì ricomponendosi e camminando orgogliosa per la sala.
Marina Abramovic era al centro della scena, ma per lei il protagonista era il pubblico. Gli istinti più brutali, una volta vinta la barriera della formalità, hanno prevalsero e il suo obiettivo era stato raggiunto. L’artista era stata così in grado di mettere a nudo la natura umana.
Marina Abramovic: l’arte cambia la sua vita
Nata a Belgrado nel 1946, ha vissuto un’infanzia difficile. Anche le sue performance fin dagli inizi furono fortemente criticate dai suoi genitori. Ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Belgrado e per anni ha dovuto lottare contro chiunque, per dimostrare e legittimare il fatto che le sue ‘azioni’ erano arte. Come sostiene l’Abramovic la difficoltà è maggiore quando si produce un’arte non facilmente commerciabile. Delle sue performance non resta un supporto o un oggetto da far circolare sul mercato, se non foto e installazioni video. Eppure è anche questa la sfida dell’artista: continuare a produrre un’arte immateriale.
“Siamo noi che creiamo i limiti, la cosa più importante è oltrepassarli”
Marina Abramovic ha l’obiettivo di spingersi oltre. Fa del cambiamento la ragione di vita, è nella paura e nell’affrontare le difficoltà che l’essere umano è stimolato a reagire e a mettersi alla prova.
L’artista riconosce anche che, durante la sua performance napoletana, l’obiettivo non era mortificare ma portare all’evidenza lo spirito umano.
È questa la nuova missione dell’Abramovic, che raggiunge l’apice con la sua performance al MoMa di NewYork durante la sua retrospettiva, The artisti is present. L’artista è stata seduta per 700 ore su una sedia di legno immobile. Davanti a lei si sono alternate almeno 1400 persone e a lei hanno espresso i loro sentimenti. L’artista ha visto negli occhi della gente il dolore e lo smarrimento e la necessità di esternarli attraverso il pianto.
Attraverso la sua forma d’espressione lei analizza i limiti della vita e cerca di oltrepassarli, creando un’arte provocatoria. Marina Abramovic vuole essere presente qui e ora e addentrarsi in territori sconosciuti, per esorcizzare paure ed essere un riferimento per il suo pubblico.
Riferimenti:
Marina Abramovic Institute : http://www.mai-hudson.org/
Angela Maselli