Well, art is an act of violence. It is about penetration, about speaking to our subconscious and our moods at different levels. […] Let’s not forget that humans were created very violent: our body parts are created for violence, it is our instinctual need to survive. But over the years we no longer need violence but we still have an urge from when we are born – which itself can be an act of violence. (Nicolas Winding Refn – The Guardian)
Come si era già detto altrove:
Refn si rivolge a qualcosa che è al di là del senso del bello o del gusto del ragionamento, ma salta direttamente verso un retaggio più antico, una tendenza che gli uomini hanno ancora nel sangue, sotto pigrizia e velleità, e che è un intuito ereditario collettivo della nostra intera specie, originario di quando eravamo creature essenziali al centro tra natura e divinità. (“Valhalla Rising, verso la sala dei guerrieri caduti“)
Nicolas Winding Refn a Copenaghen
Copenaghen è il grigio territorio fatto di forme squadrate dei primi film di Refn, e lo è innanzitutto nella trilogia chiamata “Pusher” (“Pusher – L’inizio” – 1996; “Pusher II – Sangue sulle mie mani” – 2004; “Pusher 3 – L’angelo della morte” – 2005). L’estetica esasperata e satura delle pellicole seguenti non ha sfogo qui, dove probabilmente i mezzi erano insufficienti, le vie un po’ improvvisate e lo stile in via di formazione. Telecamere a spalla barcollano rapidamente inseguendo i protagonisti, si fissano sui volti grigiastri molte volte, nel silenzio, e poi di nuovo scattano via insieme a loro verso lo scenario successivo.
Una giungla urbana disarmonica, puzzolente e intrisa di miseria. Non c’è cattiveria innata, solo quella data da un istinto di sopravvivenza feroce: questo il mondo dello spaccio della droga a Copenaghen. E calato
in questo contesto c’è il semplice studio di Nicolas Winding Refn, che guarda con interesse la sua creatura. O meglio: che guarda e mostra se stesso in quanto creatura di quel cosmo, più o meno diluito, un po’ qui e un po’ lì, tra i suoi personaggi (in “Bleeder”, del 1999, si potrebbe giurare che Mads Mikkelsen sia proprio Refn alle prese con la sua prima fidanzata, poi diventata sua moglie).
È un’incisione raschiata con dolore le cui grida echeggiano e si distorcono, fino al finale: ecco cosa sono i primi film di Refn. Se c’è qualcosa da cui fuggono è la bellezza, la maniera, la patinatura.
Bronson e Valhalla Rising
“Bronson” (2008) rompe ogni schema, se di schema si può parlare (di sicuro sono molte le somiglianze) dei film “Copenaghensi”. Un Tom Hardy in piena forma, rapato e con un paio di baffoni – caratteristici del Bronson reale – racconta se stesso su un palco immaginario, accompagnato dalle immagini di una vita surreale, divisa tra prigioni sudicie, violenza fisica scoppiata in esplosioni di ispirazione artistica, sesso, crimini, un po’ di pazzia.
Se le colonne sonore erano già state una caratteristica chiara dei film di Nicolas Winding Refn, se avevano sempre contribuito a creare l’atmosfera fin nei suoi più sporchi e piccoli angoli, con “Bronson” l’intrecciarsi di immagine e suono raggiunge l’apice. I colori si fanno più carichi, la fotografia spartisce spietatamente i corpi in biancori e buio.
La macchina da presa si immobilizza in un angolo a fissare angolazioni statuarie di un corpo, oppure a creare prospettive su stanze cubiche la cui immobilità cozza con i movimenti febbrili e rabbiosi di Bronson, dei carcerati, dei pazienti del manicomio.
E distante mille miglia, eppure gemello inseparabile, è “Valhalla Rising” (2009): se “Bronson” è una discesa verso l’inferno, questa seconda pellicola racconta di una redenzione. Ambiente civilizzato versus natura selvaggia. Ma quel che rimane costante è il centro: un uomo. E non si tratta di riflessioni antropologiche sul genere umano, ma al contrario i due protagonisti che sceglie Refn sono uomini unici, come mai più ne nasceranno, intrisi di violenza e sangue.
Drive e Solo Dio perdona
Anche il protagonista di “Drive” (2011) è un uomo unico. Interpretato da Ryan Gosling, il pilota è, come Bronson, animato dall’istinto alla violenza, ma privo di rabbia; e come
One Eye è pronto ad affrontare la scalata della redenzione. E la trama è così semplice – così naïf, addirittura! – da essere una semplice e grezza tela sulla quale dipingere tutto il resto: lui, criminale, si innamora di una giovane madre (una splendida Carey Mulligan), e per amore vendica la morte del marito di lei (Oscar Isaac) combattendo una famiglia mafiosa.
Il centro di tutto è il pilota: è lui il mistero affascinante, è lui che la macchina da presa coccola, che Nicolas Winding Refn ama, è attorno a lui che ruota la musica, l’estetica “demodé” e nostalgica. La stessa aura divina che avvolgeva One Eye avvolge ora il pilota; e sono entrambi senza passato, ma in immediata empatia con un bambino, classico simbolo del futuro.
“Solo Dio Perdona” (2013), benché meno riuscito degli altri (lo stesso regista si è dichiarato insoddisfatto), può dirsi comunque una chiara controparte di “Drive”. Lo suggerisce, banalment
e, la presenza dello stesso attore protagonista, e un’esasperazione di quella sperimentazione dell’immagine che era iniziata con “Bronson”.
Più che una pellicola, più che immagini in movimento, sembra di guardare una galleria di fotografie. Ambientato a Bangkok, e dunque pregno di un’estetica orientale mai provata fino a quel momento, “Solo Dio perdona” gode indubbiamente del contrasto tra il mondo indigeno e tradizionale, e il pallore degli stranieri. La vendetta viene da lontano, ma benché giustificata, forse, dall’amore materno (un amore ben strano e sconfinante nell’incesto), risulta però odiosa. Ma completamente inerte resta Julian (Ryan Gosling), come un Amleto a cui è richiesto di compiere una vendetta e che rimane impotente.
Tutti i protagonisti – anche la sedicenne Elle Fanning di “The Neon Demon”, appena uscito al cinema – rappresentano una parte di Nicolas Winding Refn intrappolata nello schermo e messa alla prova; un desiderio, un bisogno, anzi una curiosità dell’illegittimo scardinata dalla persona reale e concretizzata in un corpo, in un personaggio, e messa al centro di una storia. E allo stesso tempo quel pezzo di cuore del regista diventa oggetto di un gioco che fuori dal set non è consentito, né dagli altri né da se stesso; diventa insomma l’occasione di condurre esperimenti, di esercitare il comando, il potere che può diventare anche sadico. Palesemente a suo agio con il proprio narcisismo – cioè con la rappresentazione e quindi comprensione di sé – e con il piacere personale di esorcizzazione la proibita violenza erotizzata, Refn è nella realtà, a quanto dicono, pacato e imbranato. In questo caso di certo non si sbaglia a dire che il regista è i suoi film.
Chiara Orefice