Il 29 luglio 2015 “Bojack Horseman”, creato da Raphael Bob-Waksberg e disegnato da Lisa Hanawalt, viene rinnovato per una terza stagione. Stagione a tutti gli effetti all’altezza e anche superiore alle prime due.
Definito come uno dei migliori prodotti “televisivi” (va in onda su Netflix) attualmente in circolazione, “Bojack Horseman” ha qualcosa che si potrebbe definire – in modo vago, è vero – “strano”. Ma in virtù di ciò è assuefacente e geniale.
Chi è Bojack Horseman
Vecchia gloria della televisione, protagonista di una di quelle situation comedy anni ’90 a proposito di una famiglia (…che oggi potrebbero sembrare imbarazzanti cimeli di famiglia da non poter rinnegare nostro malgrado), Bojack Horseman è ora un cinquantenne con la pancia che prova ad andare avanti.
Un cinquantenne, ma non un uomo, un cavallo. Un narcisista egoista che parla di sé, e che in tre stagioni impara qualche lezione, di tanto in tanto, e che qualche volta coglie uno spunto, e per un po’ cerca di essere un “essere umano” migliore.
Accanto a lui una pletora di personaggi caricaturizzati e sorprendentemente veritieri: dall’agente gatto rosa Princess Carolyn, quarantenne frustrata e professionista efficientissima, all’avversario Mr. Peanutbutter, un cane attore la cui caratterizzazione gioca su tutti gli stereotipi del labrador un po’ scemo; da Diane, un essere umano, tipica aspirante scrittrice un po’ arrivista petulante e un po’ buon grillo parlante, a Todd, personaggio puro e dotato di un Q.I. evidentemente basso.
Per quanto la presenza degli animali renda chiaro che si tratta di finzione, “Bojack Horseman”, per contro, dimostra di essere ambientato nel nostro mondo, in quello reale. È tra prese in giro ad abitudini che cambiano di anno in anno, a marche e a vestiti, a personaggi in auge e a mode, che un cavallo fa da membro esemplare della classe media degli uomini di mezza età ricchi e impigriti.
Bojack Horseman è, prima di ogni altra cosa, un depresso.
Nato come attore comedy, è dotato di una comicità intenzionale per nulla divertente, costituita per lo più da “battute da padre”. Ma ha anche una comicità involontaria dark che invece fa ridere, e ridere amaramente.
Sulla depressione, sulla comicità,
sull’oggi, sullo showbiz
È appunto il lato dark, serio, profondo, intelligente, quello che non ci si aspetterebbe in una serie come questa. Una serie che può sembrare solo un ennesimo prodotto alla “Griffin”.
Al contrario, in un susseguirsi di situazioni surreali che replicano la più reale realtà sottolineandone l’aspetto assurdo, “Bojack Horseman” va a toccare senza guanti temi scottanti, o meglio pruriginosi, veri e fastidiosi. Nessuno dei personaggi è realizzato o felice, ma è costretto a vivere in un mondo che gli chiede di esserlo, di godersi i soldi, il sole di L.A. e la superficialità dei cartonati di cui è fatta Hollywood (o meglio, Hollywoo).
In ogni episodio, infarcito di citazioni destrutturanti a cinema e star reali, grande protagonista è il mondo delle celebrità. Deriso in ogni attimo, è però rappresentato come mostro fagocitante che tira fuori il peggio di ognuno. E non ci sono buonismi né luoghi comuni. È una descrizione dall’interno priva di indulgenza. Così come è senza alcun tipo di indulgenza la panoramica che si ha dell’uomo (o animale) tipo che popola gli Stati Uniti.
La felicità è agognata e inconsciamente fuggita; il successo e la fama sono pubblicamente sminuiti e segretamente inseguiti come surrogati dell’amore.
Bojack Horseman vi farà riflettere, su questo e su ben altro (mondo attuale, genitori, aborto, capitalismo, commercio, pubblicità, editoria, showbiz, fuga dall’età adulta, fuga dalla realtà, alcol, sesso, veganesimo, società del benessere, armi, amicizia, droghe, responsabilità, codardia, illusioni, morte…), di solito negandovi il lieto fine e dandovi una scossa di ironico, macabro e deprimente realismo.
Senza battere ciglio e senza versare una lacrima.
E senza neanche dare una soluzione. La depressione è lo stato permanente e normale di un gruppetto di falliti che sta a galla come riesce. E questo è “Bojack Horseman”.
Chiara Orefice