La narrativa femminile: una voce per Maria Messina

“Non si tratta, s’intende, di creare un linguaggio speciale per la psiche femminile: il linguaggio umano è uno […] ma se gli uomini e le donne sono psicologicamente diversi, allora avranno anche diverso modo di esprimersi”. [1]

Completamente fuori dal circuito letterario e del tutto ignorata dalla storia letteraria, Maria Messina è una delle voci più interessanti della narrativa femminile italiana. Particolarmente apprezzata in Francia, sulla rivista “Le Monde” furono pubblicati numerosissimi articoli su di lei; in Italia fu scoperta da Leonardo Sciascia e dalla casa editrice Sellerio che si è assunse il compito di pubblicare le sue opere.

Una panoramica della narrativa femminile italiana

Intorno agli anni ’70-’80 dell’Ottocento si assiste ad una forte presenza femminile nel circuito letterario e giornalistico italiano. Precedentemente le donne non avevano la possibilità di esprimersi attraverso la scrittura, se non sotto forma di diari o lettere, e in ogni caso erano costrette a reprimere i loro pensieri. A partire da dopo l’Unità, sorsero moltissimi giornali che consentivano alle donne di pubblicare delle novelle. Fu solo allora che le donne iniziarono a scrivere, mettendo inizialmente al centro dei loro componimenti il tema amoroso. Furono accusate di essere monotematiche senza considerare la loro scarsa esperienza del mondo ma soprattutto l’assenza di  una tradizione a cui appellarsi. L’irruzione femminile non fu certo ben vista: Zuccoli scrisse un articolo intitolato “Il pericolo roseo” al quale Lia Morpurgo rispose con un altro articolo dal titolo evidentemente contrapposto “Una rosea speranza”.

L’uso dello pseudonimo: maschera e gusto dell’invenzione

Spesso le scrittrici si nascondevano dietro uno pseudonimo. Esso è segno dello “spavento per la critica” ovvero la paura di essere sottoposte al giudizio dei critici (“giudici ignoti che sezionano un lavoro, lo tagliano lo spolpano, lo analizzano, lo lambiccano sotto gli occhi dell’autore” [2] o una forma di pudore per tutelare la propria intimità dagli sguardi invasivi del mondo.
In “Soglie” Gérard Genette, un grande studioso del romanzo, analizza la “soglia” di un’opera ovvero tutto ciò che sta intorno al testo (il termine tecnico è “paratesto“); alla voce “pseudonimo” scrive che esso si può applicare a due attività: alla letteratura e al teatro. Lo pseudonimo rappresenta il piacere della maschera, del sospetto e del nascondersi che si unisce ad un “feticismo onomastico” e al gusto dell’invenzione. È considerato da Genette una vera e propria creazione artistica.

Elementi t2147731754_972bd19e9dipici della narrativa femminile

Secondo Starobinski, tra gli elementi tipici e topici della narrativa femminile risaltano in modo particolare il tema della clausura, del doppio, del teatro e della performance; anche la presenza di finestre chiuse sul mondo e porte sprangate è ricorrente. Interessante è lo studio condotto da Zambon nell’opera “Leggere per scrivere” in cui confronta quattro autobiografie di donne per individuarne le analogie e le differenze. Una delle più importanti somiglianze è il racconto di tutto ciò che è successo prima di diventare scrittrici, un viaggio nel passato e nei ricordi. Comune a tutte loro è la scarsa esperienza scolastica (la maggior parte la terminava intorno ai 14 anni), il rapporto negativo con la scuola, l’importanza dei racconti orali che suppliscono la mancanza di una cultura libresca, letture disordinate che influiranno sulla loro scrittura.

La tessitura come metafora della scrittura

Jhon William Waterhouse - Penelope e i pretendenti
Jhon William Waterhouse – Penelope e i pretendenti

La mancanza d’istruzione viene però compensata e risarcita dalle lezioni pratiche della vita: le donne sanno cucinare e cucire. Il motivo della tessitura è frequente nella narrativa femminile ed è sempre presente nelle opere di Maria Messina.
La tessitura, oltre a rimandare all’immagine di Penelope, non è altro che metafora della scrittura stessa; la tessitura, infatti, consiste nel dar vita ad una trama di stoffa così come la scrittura dà vita ad un intreccio narrativo.

 

La scrittura: unica via d’uscita

Entrare nel mondo letterario significava per le donne, intrappolate in vite dolorose, uscire da esistenze grigie, monotone e asfittiche, dalle mura soffocanti delle case paterne e coniugali. L’immaginazione diventa una terapia per evadere da spazi claustrofobici e la scrittura un balsamo per lenire le sofferenze, una chiave d’oro verso un altrove.

La condizione più dolorosa: Maria Messina

Ci sono pervenute pochissime informazioni riguardanti la vita di Maria Messina: sappiamo che ebbe un’infanzia dolorosa: il matrimonio dei genitori fu infelice, l’intera famiglia viveva in ristrettezze economiche e la giovane scrittrice fu costretta a continui traslochi (“siamo uccelli senza nido”) e avvertì sempre un profondo senso di solitudine:

“ci sono ore nella giovinezza in cui l’anima è così debole che non sa sopportare la solitudine. E la solitudine pare una creatura visibile; una creatura d’ incubo che ci prema il cuore con le sue mani aperte”[3]

Fu presto colpita dalla sclerosi multipla e morì durante i bombardamenti. Le poche notizie su di lei sono reperibili in un ampio epistolario con Verga (di cui Maria Messina era una grandissima ammiratrice) che riguarda gli anni compresi dal 1909 al 1919.
Il suo temperamento era mite, ossequioso, aveva una forte deferenza nei confronti del modello maschile; infatti definisce la propria scrittura degli “scarabocchi”.

La critica di Borgese e la difesa di Sciascia

Borgese, in un articolo, definì Maria Messina una scrittrice pigra, “una scolara di Verga” che adottava un modello, quello verghiano, ormai fuori moda e così facendo si sarebbe preclusa altre possibilità.
Alla critica di Borgese sembra rispondere Leonardo Sciascia, lo scopritore di Maria Messina, nella Postfazione di Casa Paterna: per chiunque volesse scrivere degli umili e delle campagne, non vi era altro modello che quello verghiano, ma Verga non è l’unico autore a cui la Messina si ispira. Nelle sue opere sono presenti numerosissime tracce di temi e motivi tipicamente pirandelliani (soprattutto del Pirandello delle Novelle per un anno e dell’Esclusa).
Sciascia sostiene dunque che la scrittura di Maria Messina sarebbe “in transito” tra Verga e Pirandello.

 Lo spazio della casa

Come spesso accade, lo spazio non è mai un elemento puramente fisico (cioè funzionale esclusivamente al movimento e allo spostamento dei personaggi) ma anche simbolico e metaforico.
Nella narrativa di Maria Messina, infatti, lo spazio della casa è metafora dei destini braccati dei suoi personaggi e dell’atmosfera oppressiva e asfittica della loro esistenza. Le donne di Maria Messina sono intrappolate in un vortice senza uscita: possono accettare la reclusione o decidere di abbandonare le case paterne/coniugali. La seconda alternativa non rappresenta certo una soluzione: al di fuori della casa non hanno né ruolo né identità; non c’è che la dispersione e la disgregazione del proprio io.

La novella capolavoro di Maria Messina: Casa Paterna

La protagonista della novella è Vanna, una donna siciliana, moglie di un avvocato romano. Vanna conduce un’esistenza infelice: perennemente esclusa (l’esclusione è un tema tipicamente pirandelliano, infatti Vanna sembra essere molto simile a Marta Ajala) e a disagio negli spazi metropolitani per lei incontrollabili e stranianti, al contrario del marito, uomo  perfettamente integrato nella società e nei ritmi della vita cittadina.

“E poi… Ma già! Tu non hai un’idea di Roma. Esser sola, non conoscere anima viva; passare la giornata aspettando l’unica persona che dovrebbe volerti un po’ di bene… Sta quasi tutto il giorno fuori. È sempre occupato. Il suo studio è lontano. Il più delle volte prende un boccone in trattoria”

La donna decide, con un gesto di inusitata ribellione, di ritornare nella casa paterna, sperando di trovare, in quel nido salvifico, il conforto e l’affetto della famiglia. Lì dove “la sua giovinezza era sbocciata come un fiore[4], si accorgerà di non essere più la benvenuta e si sentirà come “una straniera di passaggio“.

L’impossibile ritorno di Vanna

Tutto è cambiato: i fratelli si sono ormai sposati con due donne opposte alla protagonista, dotate di spirito di contraddizione e di una forte predisposizione organizzativa e amministrativa; la madre sembra non percepire la sofferenza di Vanna e l’intera famiglia non è disposta ad accettare la vergogna della separazione, in particolar modo la sorella minore Ninetta che teme di rimanere zitella a causa del comportamento ardito di Vanna.
Vanna si sentirà un’ospite indesiderata, confinata nella “camera del gatto”(perché la sua era stata oramai occupata) e, alla sua iniziale speranza di trovare conforto, si sostituirà la coscienza di una distanza incolmabile, di un’incomunicabilità irreversibile:

Poi non si sorprese quando, nei giorni di visite, la lasciarono sola: pareva che in casa si rammentassero della sua presenza, soltanto per soffrirne. Del resto, quasi se ne dimenticavano. All’ora del caffè e latte, Viola preparava per tutti e poi diceva: – Mi scordavo di Vanna… – e riempiva un’altra tazza. Nessuno si affrettava a chiamarla.[5]

 

Casa Paterna e i Malavoglia: finali a confronto

Costretta ad accettare che i fratelli richiamino il marito perché la riprenda con sé, dopo aver rincontrato il coniuge che ostenta la sua completa indifferenza, a Vanna “le parve di essere già tornata a Roma nell’appartamento al quarto piano».
Nella scena conclusiva la protagonista avverte immediatamente un “bisogno d’aria” che la porta a scappare verso il mare, alludendo al suo suicidio.
La conclusione evoca in controluce la scena finale dei Malavoglia di Verga, in cui il giovane ‘Ntoni, ritornato nella ricostruita casa del nespolo, avverte la propria estraneità rispetto ad una comunità che, come “l’ostrica“, non ha mai abbandonato il suo scoglio oltrepassando le colonne d’Ercole della sua terra natia. Il suo impossibile ritorno, anticipato dalle parole di Alfio Mosca, è simile a quello di Vanna:
“Quando uno lascia il suo paese è meglio che non ci torni più, perché ogni cosa muta faccia mentre egliè lontano, e anche le facce con cui lo guardano son mutate,e sembra che sia diventato straniero anche lui.” [6]
“Non si torna. Tutto cambia. I fratelli hanno un altro viso. La madre ha un’altra voce. Altre donne hanno occupato il tuo posto mentre eri lontana. E ciascuno ti accoglie, come s’accoglie una straniera di passaggio.” [7]
Claudia Monti

Fonti:

[1] citazione da “Andando e Stando” (1921) di  Sibilla Aleramo (pseudonimo di Rina Faccio)

[2] citazione della Marchesa Colombi (pseudonimo di Maria Antonietta Torriani)

[3] citazione tratta da “La casa nel vicolo” (1921), Maria Messina.

[4], [5], [7] citazioni tratte dalla novella “Casa Paterna” (1919) appartenente alla raccolta “Le briciole del destino

[6] citazione tratta da “I Malavoglia“(1881) di Verga

Vicoli, gorghi e case: reclusione e/o identità nella narrativa di Maria Messina” di Maria Muscariello

http://www.literary.it/dati/literary/bartolotta/maria_messina_18871944.html